Angelino Alfano difende con veemenza gli agenti sorpresi a colpire senza motivo cittadini inermi durante manifestazioni e sgomberi. Rifiuta ogni seria autocritica e minaccia di vietare cortei e manifestazioni nel centro storico di Roma. Teppisti e agenti vengono equiparati, la proposta di introdurre codici identificativi sulla divisa è respinta con rabbia. Un’escalation autoritaria che ci allontana dai canoni delle democrazie europee
Un ministro dell’Interno che alza la voce e usa toni da capo-manipolo per difendere quelli che definisce attacchi alla polizia, un ministro dell’Interno che minaccia di vietare cortei e manifestazioni nel centro storico di Roma, un ministro dell’interno che respinge con rabbia una solida proposta garantista come il codice identificativo sulle divise degli agenti, ecco un ministro degli interni così non si era ancora visto. Angelino Alfano, nell’arco di pochi minuti di conferenza stampa, ha rivendicato un ruolo da ministro di polizia, cioè una concezione che ci allontana dai canoni delle democrazie europee.
A un certo punto ha sventolato fotografie riprese durante la manifestazione del 12 aprile: immagini raffiguranti persone che lanciano oggetti, che hanno il volto coperto e così via. Ecco i pacifici manifestanti, ecco che partecipa ai cortei, ha inveito Alfano, rivendicando di fatto le violenze, gli eccessi, gli abusi compiuti da alcuni agenti durante quella stessa giornata.
Non sfugge la gravità di questa rivendicazione: il ministro ha messo sullo stesso piano teppisti e agenti. Ha detto, certo, che chi commette abusi sarà perseguito dalle autorità competenti, ma intendeva dire "chi avrà la sfortuna d’essere fotografato o filmato e riconosciuto". In verità, mostrando le foto dei teppisti, ha suggerito l’equazione: se quelli lanciano pietre, questi risponderanno con la stessa moneta.
Ma gli agenti sono funzionari dello stato, dipendenti pubblici chiamati ad osservare la legge e a farla rispettare: non possono in alcun caso mettersi sullo stesso piano di chi si lascia andare a comportamenti violenti. Oltretutto l’equazione di Alfano è un’aberrazione logica: la reazione violenta delle forze di polizia, quando c’è (anche sabato 12), non colpisce mai o quasi mai i manifestanti mascherati o che lanciano oggetti, ma altre persone.
Alfano ha alzato i toni e messo i panni da ministro di polizia: ha parlato con tanta foga dopo la diffusione di foto e filmati che hanno mostrato per l’ennesima volta agenti che colpiscono con calci e manganelli cittadini inermi, spesso inginocchiati o sdraiati a terra (episodi del genere furono numerosissimi durante il G8 di Genova e in molti casi sono finiti in tribunale, con conseguente condanna del ministro dell’interno a pagare risarcimenti ai cittadini sottoposti ad abusi). Ha deciso che la migliore difesa è l’attacco e che non c’è nulla di cui scusarsi, nulla da cambiare nelle scelte operative.
Il capo della polizia Alessandro Pansa nei giorni scorsi aveva commentato a caldo le immagini che mostravano un agente che calpesta una ragazza sdraiata a terra: "Abbiamo un cretino da identificare". Una sortita infelice, che intendeva minimizzare il fatto, circoscriverlo alla condotta di un unico agente sprovveduto. Un’analisi di comodo e superficiale, ma ancora niente rispetto alle posizioni espresse subito dopo dal prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, che ha contraddetto Pansa e detto a chiare lettere che i poliziotti sono le vere vittime.
Ora arriva la presa di posizione oltranzista di Angelino Alfano, in un’escalation pericolosissima. Il ministro, nel suo furore, è arrivato a dire che il codice di riconoscimento dovrebbe essere indossato dai manifestanti: un’affermazione così grave, da vero ultrà, non si era mai sentita.
E Alfano sembra ignorare che la proposta di introdurre i codici risale al 2001: fu Pippo Micalizio, il funzionario inviato a Genova dal capo della polizia Gianni De Gennaro per un’indagine interna sul caso Diaz, a consigliare il provvedimento. La presenza dei codici sulle divise è una garanzia per i cittadini in caso di abusi ma anche un deterrente – questo il senso più profondo – contro le degenerazioni tipiche di certe dinamiche di gruppo. Può succedere – accadde proprio alla Diaz – che arrivino dall’alto ordini aberranti o che si inneschino dinamiche di violenza per imitazione: il rischio d’essere identificati, in casi del genere, può spingere un agente a rifiutare ordini aberranti o a non imitare colleghi che commettono abusi.
Il rigetto stizzito di una misura del genere da parte di Angelino Alfano, come la minaccia di vietare i cortei nel centro di Roma, o ancora la difesa irragionevole e corporativa di tutti gli agenti e di tutti i loro comportamenti, anche i più indifendibili, da parte del prefetto di Roma, sono il segnale che la cultura democratica, negli uffici del Viminale e nei palazzi del potere, si sta sgretolando.
Di fronte ad abusi documentati si reagisce attaccando, in totale spregio dell’etica istituzionale. Dal 2001 in quegli uffici, in quei palazzi, ci si è rifiutati di fare i conti con la dura verità emersa nelle giornate di Genova; sono stati rifiutati anche i pesantissimi giudizi della magistratura: le condanne nei processi Diaz e Bolzaneto non hanno innescato il minimo ripensamento o cambiamento.
Ora Angelino Alfano si esprime come un ministro di polizia di epoca pre-democratica. Ma siamo già in una preoccupante fase di post-democrazia. Gli intellettuali che hanno parlato di "deriva autoritaria" pensando alla nuova legge elettorale e all’abolizione dell’elettività del Senato, dovrebbero aggiornare il loro appello.