Economia / Opinioni
Il Gruppo Cremonini e quello strano diritto all’oblìo preteso dall’industria agroalimentare
In Italia manca un dibattito serio su dinamiche e impatti dell’industria agroalimentare. Domina la retorica del Made in Italy contro i “burocrati di Bruxelles”. Un favore a pochi e grandi gruppi multinazionali. L’editoriale del direttore Duccio Facchini
La campagna elettorale per le europee si giocherà anche sul cibo. La fiaba ormai la conosciamo: da una parte la piccola Italia fatata delle eccellenze agroalimentari “Made in Italy”, fatta di sapori naturali e tradizioni, e dall’altra i grigi “burocrati di Bruxelles” che vogliono imporci surrettiziamente “carne sintetica” e “farina di insetti”, e persino colpire aziende agricole e allevamenti con la scusa della crisi climatica. Il tutto a favore della Cina.
È la retorica promossa dai vertici della più grande associazione di rappresentanza e assistenza dell’agricoltura italiana, Coldiretti, che tanti politici (non solo dell’attuale maggioranza) ha folgorato lungo la via del suo “Villaggio”. Quest’anno il maxi appuntamento si terrà dal 13 al 15 ottobre al Circo Massimo a Roma sotto l’hashtag #stocoicontadini, lo slogan “Il miglior cibo italiano” e con il contributo di piccoli produttori bio quali Intesa Sanpaolo, Eni, Snam, Terna, Philip Morris Italia, Ferrovie dello Stato, Enel, BF, Gruppo Cremonini, Granarolo, McDonald’s e altri (“Tutti i menù a otto euro”).
Ma la realtà è un po’ più complessa del derby “contadini vs Bruxelles” e richiederebbe un dibattito pubblico aperto su dinamiche e impatti del modello agroalimentare industriale nel nostro Paese, abbandonando l’interessata difesa dello status quo.
Prendiamo il caso della carne bovina. A luglio di quest’anno, mentre Assocarni (l’Associazione nazionale industria e commercio carni e bestiame di Confindustria) e Coldiretti esprimevano “soddisfazione” per il voto contrario del Parlamento europeo alla proposta della Commissione di includere gli allevamenti bovini nel campo di applicazione della direttiva sulle emissioni industriali (ne avevamo scritto qui), usciva l’ultima scheda di settore sul comparto a cura di Ismea, l’Istituto (pubblico) di servizi per il mercato agricolo alimentare. L’analisi mostra che quello della carne bovina è tra i settori meno autosufficienti, con un tasso di autoapprovvigionamento nel 2022 che è sceso “ai livelli più bassi dell’ultimo decennio”, al 42,5%.
Sotto a suini, latte, olio d’oliva, agrumi, frutta, ortaggi e vino. La bilancia commerciale è in negativo per 3,3 miliardi di euro, cioè importiamo più animali vivi da ingrassare, carni fresche, surgelate, frattaglie o preparazioni -da Polonia, Francia, Olanda e Spagna- di quanto esportiamo.
E la retorica dell’eccellenza minacciata dai burocrati? Guai ad approfondire. E a volte guai anche a fare nomi. I padroni del Gruppo Cremonini, l’impero modenese della carne bovina da 5,1 miliardi di euro di ricavi nel 2022, non vogliono infatti che li si nomini in un approfondimento giornalistico dedicato agli attori della filiera e ai diritti dei lavoratori del comparto in cui operano e dal quale soprattutto traggono profitti miliardari.
E tramite un avvocato che sostiene di agire “in nome e per conto” loro richiedono la “cancellazione dei propri dati personali”. Anche quando non ce n’è mezzo, se non la pura denominazione della società di famiglia che controlla uno sterminato arcipelago multinazionale che va da Inalca (lato produzione) a Marr (distribuzione), da Chef Express a Roadhouse (versante ristorazione).
Nel settembre 2019 la nostra redazione -nell’ambito di un progetto di cooperazione internazionale chiamato “Voci migranti”, con la Ong Africa ‘70 come capofila e l’istituto Nexus Emilia-Romagna tra i partner– ha infatti curato la pubblicazione di un report intitolato “Le debolezze della carne”. Numeri e testimonianze dirette su produzione, consumo, impatti ambientali, organizzazione della filiera, trasformazione delle condizioni di lavoro e delle “regole” del gioco, conseguenze dell’esternalizzazione a cooperative spurie su diritti, salari e salute. Un’appendice finale riportava i bilanci e le strutture societarie più aggiornate delle imprese leader del mercato, Gruppo Cremonini in testa. Con oltre tre anni di ritardo il loro avvocato chiede di rimuovere da lì presunti dati personali di persone che “non ricoprono alcuna carica pubblica”. Quelli cioè di Luigi -il fondatore del gruppo, nel 1963- e dei figli Vincenzo, Claudia, Serafino e Augusto. Che però non vengono mai nominati. Non lo faremo: non digeriamo la censura “Made in Italy”.
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