Diritti / Opinioni
Il giardino della democrazia
Un intellettuale del Seicento convince un ministro del Re Sole a fare usare un giardino reale come un bene comune. Una “favola” di cittadinanza per aprire gli occhi. La rubrica di Tomaso Montanari
“Quando si finì di ripiantare il giardino delle Tuileries, mettendolo nello stato in cui lo si vede oggi, ‘Andiamo -mi disse [Colbert]- alle Tuileries, a serrarne le porte. Bisogna conservare questo giardino al re, e non lasciarlo rovinare dal popolo, che, in men che non si dica, lo distruggerà del tutto’. La decisione mi parve molto dura e incresciosa per tutta Parigi. Quando fummo nel grande viale, gli dissi: ‘Non potete immaginare, signore, il rispetto che per questo giardino hanno tutti, fino al più piccolo borghese. Non solo le donne e i bambini non si permettono nemmeno di cogliere, ma nemmeno di toccare, alcun fiore, e tutti ci passeggiano da persone ragionevolissime. I giardinieri possono confermarvelo, signore. Sarà un danno pubblico non poter più venire qua a passeggiare, specie ora che non si può più entrare al Lussemburgo e all’Hotel de Guise’. ‘Non sono che dei fannulloni, quelli che vengono qua -replicò-’. ‘Ci vengono, gli risposi, persone convalescenti, per prenderci l’aria; ci si viene a parlare d’affari, di matrimoni e di tutte quelle cose di cui si parla più agevolmente in un giardino che non in una chiesa, dove per l’avvenire bisognerà prendere a darsi appuntamento. Sono convinto -continuai- che i giardini dei re non sono così grandi che per farvi passeggiare tutti i loro sudditi’. Sorrise, a questo discorso, e siccome nel frattempo la maggior parte dei giardinieri delle Tulieries si era radunata di fronte a lui, domandò loro se il popolo non facesse danno nel loro giardino. ‘Per nulla, signore -Risposero all’unisono- si contentano di passeggiare e guardare’. ‘E questi signori, ripresi, ci trovano anche il loro tornaconto, perché l’erba non ricresce così velocemente lungo i viali’. Monsignore fece il giro del giardino, dette i suoi ordini e non parlò più di proibire l’entrata a chicchessia, ed io ebbi la gioia di aver in qualche modo contribuito a far sì che non si sottraesse questa passeggiata al pubblico, perché se il signor Colbert avesse fatto chiudere le Tulieries non so quando sarebbero state nuovamente aperte”.
Questo testo impressionante, che racconta eventi del pieno Seicento, fa parte dell’autobiografia di Charles Perrault, scritta intorno all’anno 1700: a parlare è dunque uno dei più popolari scrittori della storia europea, l’inventore di “Cappucetto rosso”, “Cenerentola”, “Pollicino” o la “Bella addormentata nel bosco”.
E in effetti la pagina che abbiamo letto ha l’andamento di una favola: un intellettuale che convince lo strapotente ministro del più potente sovrano d’Europa, il Re Sole, a fare usare un giardino reale come un bene comune. Un bene aperto a tutti.
È come se qualcosa dell’idea di sovranità popolare, che proprio in Francia nascerà con la Rivoluzione del 1789, avesse iniziato a manifestarsi oltre un secolo prima. Nelle parole di Perrualt intravediamo la nascita di una opinione pubblica: di una cittadinanza a cui non basta più lo spazio della chiesa, ma ha una vitale necessità di un vero spazio pubblico. Uno spazio laico, un luogo terzo: in cui non essere fedeli o sudditi, ma appunto cittadini.
Ed è proprio per questo che leggere oggi una pagina simile ci aiuta ad aprire gli occhi su ciò a cui stiamo rinunciando: luoghi in cui non essere clienti o consumatori, e cioè sudditi del nuovo sovrano, il mercato. E in cui invece poter essere liberi. Non è un caso se, da New York ad Istanbul, i movimenti civili degli ultimi anni hanno preso le mosse da giardini e parchi pubblici. Perché è il giardino della democrazia quello di cui parliamo.
Tomaso Montanari è professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli. Da marzo 2017 è presidente di Libertà e Giustizia.
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