Diritti / Varie
Il filo spinato alla porta
La Slovenia ha steso un reticolato lungo il fiume Dragogna, che divide il Paese dalla Croazia. A meno di 30 chilometri dall’Italia, l’Europa è divisa. Non serve a fermare i profughi, visto che la Slovenia è territorio di passaggio (in treno) verso il Nord Europa, ma indica il posizionamento di Lubiana sulla linea dei Paesi più duri contro i migranti
Sulle sponde del Dragogna si comprende la profondità della crisi politica e morale che vive l’Europa. Lungo il corso del fiume che scende dai monti della Savrinia, la Repubblica di Slovenia ha steso nel novembre scorso un reticolato di filo spinato. Naturalmente, è una rete messa contro i profughi in movimento sulla rotta balcanica, o meglio per “controllare meglio i flussi migratori”, secondo il pudico linguaggio della politica. C’è da preoccuparsi, nonostante il silenzio che circonda la vicenda, perché siamo a meno di trenta chilometri dal confine italiano e perché al governo a Lubiana non c’è la destra-destra ungherese di Viktor Orbán, bensì un pacato giurista cinquantenne, Miro Cerar, alla guida di una coalizione di centrosinistra.
Rafforzato dal filo spinato e dai controlli di frontiera con un Paese non-Schengen (la Croazia), il confine sul Dragogna è oggi la barriera più alta -sotto il profilo simbolico- che sia stata alzata nella penisola dell’Istria, una regione che si è sempre concepita come un’entità omogenea, con una sua cultura e anche una sua lingua, l’istroveneto, idioma che si somma allo sloveno, al serbo-croato e all’italiano.
Nella Jugoslavia socialista il Dragogna era solo un confine amministrativo fra Slovenia e Croazia, barriera quasi invisibile e per lo più ignorata. La disgregazione jugoslava divise invece l’Istria in due veri spezzoni, un piccolo spicchio, fra Capodistria e Pirano, sotto Lubiana, il resto nella repubblica croata; il Dragogna cominciò a segnare un confine fra due veri Stati, con tanto di controversia internazionale sulle rispettive acque territoriali nel Golfo di Pirano.
Fu un piccolo grande dramma per la gente istriana. Finché, il primo luglio 2013, non è arrivata l’Europa, con l’ingresso della Croazia nell’Unione (la Slovenia ne fa parte dal 2004): pareva l’apertura di una fase nuova, il preludio a un’ideale riunificazione dell’Istria nel più grande spazio europeo. Sono passati solo due anni e mezzo, ed ecco che Lubiana decide di piazzare 140 chilometri di filo spinato (fra l’Istria e altre zone di confine), col progetto europeista rimasto fatalmente impigliato nelle piccole e taglienti lame collocate dall’esercito sloveno. Il reticolato è un segno dei tempi, e dunque pare molto pertinente l’amara e sarcastica affermazione -“Living the Ue dream” (col simbolo Ue circondato da spine d’acciaio anziché dalle stelle ufficiali)- scritta sul cartello abbandonato da qualcuno nel punto scelto da un gruppo di sindaci e amministratori per terminare la singolare marcia organizzata il 7 gennaio 2016. Primi cittadini e assessori con la fascia tricolore provenienti dalla provincia di Gorizia, lo stesso presidente dell’ente, insieme con esponenti delle associazioni degli italiani d’Istria, hanno camminato per poche decine di metri dal posto di confine al filo spinato sul Dragogna, attraversando orti e vigneti lungo un sentiero infangato. Arrivati alla barriera, gli amministratori hanno deposto mazzi di fiori e pronunciato discorsi di apertura e fratellanza, del tutto dissonanti con ciò che si dice a Lubiana ma anche a Roma e nelle altre capitali europee, visto che la scelta di posare il reticolato non ha suscitato scandalo. Le ragioni per cui gli amministratori goriziani e gli italiani d’Istria (in compagnia delle associazioni animaliste, fra le prime a protestare contro la nuova barriera) si sono messi in marcia va probabilmente ricercata nella storia recente di queste terre. Gorizia è stata una città divisa da un autentico muro -base di calcestruzzo e una cancellata alta due metri in piazza Transalpina, davanti alla stazione ferroviaria- dal 1947 fino al 2004: i dolorosi effetti della guerra fredda si sono protratti più a lungo lì che a Berlino. Quanto agli italiani d’Istria, minoranza linguistica e nazionale divisa fra due Stati, l’innalzamento di nuove barriere sul Dragogna ha per loro il sapore di un’inattesa regressione storica. Il 7 gennaio hanno quindi manifestato fino al Dragogna istituzioni e minoranze più sensibili di altre alle minacce della chiusura e del nazionalismo, perché ne hanno sofferto più a lungo e più direttamente i nefasti effetti. Enrico Gherghetta, presidente della Provincia di Gorizia, davanti al filo spinato ha tenuto un breve quanto ispirato comizio: “Abbiamo vissuto i dopoguerra tormentati del confine orientale e per noi è inimmaginabile l’idea che vengano rimessi i fili spinati. Noi siamo nati con l’idea dell’Europa che si allarga e non dell’Europa che si restringe. Questa barriera mette a repentaglio le fondamenta dell’Europa unita”.
Il reticolato, naturalmente, ha una funzione pressoché simbolica: non serve a fermare i profughi, visto che la Slovenia è territorio di passaggio (in treno) verso il Nord Europa, ma indica il posizionamento di Lubiana sulla linea dei Paesi più duri contro i migranti, nonostante il colore politico di centrosinistra; l’ungherese Orbàn rischia allora di rivelarsi un anticipatore delle future politiche europee, più che il reprobo finora dipinto.
Non serve a fermare i profughi, ma in compenso il filo spinato è un’insidia mortale per gli animali selvatici -cinghiali, volpi, caprioli, daini, cervi- e quindi non sorprende che le associazioni animaliste siano protagoniste delle proteste e delle manifestazioni contro la nuova barriera. “I selvatici non conoscono frontiere, sono il simbolo della libertà di movimento, che noi rivendichiamo per tutte le specie”, dice Andrea Bogataj, della Società per la prevenzione dei maltrattamenti sugli animali di Capodistria.
Furio Radin, deputato al parlamento croato in rappresentanza della minoranza di lingua italiana, è uomo saggio e di vasta esperienza. Davanti al filo spinato, dopo la marcia, ha ammonito: “Faccio un appello agli amici sloveni a togliere questo filo spinato, per non rimanervi impigliati con la mente. La storia purtroppo insegna che è molto più facile mettere barriere che toglierle, perciò dobbiamo fare in fretta”. E Maurizio Tremul, presidente della giunta esecutiva dell’Unione italiana (l’associazione che riunisce gli italiani residenti fra Istria e Quarnaro), ha quasi infierito sui presenti, ricordando le recenti illusioni europeiste: “Ricordo la notte di Gorizia fra il 30 aprile e il primo maggio 2004: ci fu una grande festa, quando fu abbattuto il confine fra Slovenia e Italia che tagliava in due la città. Oggi, appena un decennio dopo, vedere questo filo spinato è molto doloroso”.
L’ansia di barriere è un virus in forte diffusione, e lo stato d’emergenza permanente un destino quasi ineluttabile, ma almeno l’opposizione al filo spinato, sia in Slovenia che in Croazia, è piuttosto vivace. Ci sono gruppi -soprattutto animalisti- che compiono azioni di sabotaggio: piccoli commando di due-tre persone munite di tenaglie scelgono punti poco controllati e tagliano la barriera, con tanto di fotografie destinate ai social network, in modo da lasciare varchi utili agli animali e intanto combattere in rete la battaglia dei simboli aperta dal governo di Lubiana; da un lato le spine di metallo, dall’altro le cesoie.
C’è chi pensa anche di organizzare un referendum contro il reticolato, ma l’appello al popolo potrebbe rivelarsi un boomerang: secondo alcuni sondaggi l’80 per cento degli sloveni sarebbe a favore della scelta compiuta dal premier Cerar. Il tarlo dell’avversione per profughi e migranti, coltivato nella Fortezza Europa, sembra aver scavato in profondità. —
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