Economia / Opinioni
Il dominio dei fondi speculativi sul sistema bancario italiano
Gli hedge fund condizionano banche e aziende, utilizzando la Bce come loro strumento. Le regole sono ancora carenti. La rubrica di Alessandro Volpi
Gran parte del sistema bancario del nostro Paese, quello in cui la maggioranza degli italiani mette i propri risparmi, è profondamente condizionata dai grandi fondi speculativi. Si potrebbe dire che è dominata da tali fondi. Solo per citare un caso: BlackRock possiede all’incirca il 5% di tutte le principali banche italiane, oltre che di Telecom e molte aziende, risultando il “decisore” fondamentale nelle scelte creditizie di questi istituti direttamente finanziati dalla Bce.
Si tratta di un fondo “inventato” da Larry Fink che ha fatto il salto di qualità nell’operazione posta in essere dal segretario al Tesoro degli Stati Uniti Tim Geithner per affrontare l’esplosione della bolla dei subprime; utilizzando il software Aladdin -un simpatico acronimo- e ricorrendo a vari strumenti finanziari e alla liquidità della Federal Reserve, BlackRock ha fatto sparire miliardi di dollari di mutui tossici, comprandosi anche qualche banca d’investimento. Oggi gestisce un patrimonio di oltre 8mila miliardi di dollari, più di quattro volte il Prodotto interno lordo italiano e impiega ad ampie mani tutto il repertorio più ardito della finanza speculativa dai derivati, alle vendite allo scoperto -quelle fatte senza possedere i titoli venduti- alle posizioni fuori bilancio, ai fondi offshore. In estrema sintesi un soggetto decisamente spregiudicato è arrivato a possedere le leve decisorie del sistema bancario italiano.
5%: il fondo speculativo BlackRock possiede circa il 5% di tutte le principali banche italiane.
Non solo: BlackRock, come molti fondi hedge, si sta arricchendo adoperando la già citata Bce con un “semplice” meccanismo. I fondi hedge si fanno prestare dalle banche di investimento, di cui spesso sono proprietari, ingenti risorse per partecipare alle aste dei titoli del debito pubblico dei vari Stati europei. In genere mettono un decimo del valore che intendono acquistare in titoli pubblici perché il resto viene loro “prestato” dalle banche di investimento; per comprare 500 milioni di titoli italiani mettono 50 milioni e se ne fanno prestare 450. Acquistano così 500 milioni in titoli a un prezzo di 101 su un valore nominale di 100 che poi rivendono alla Bce, interessata a non far deprezzare i debiti pubblici, a 102 guadagnando in un istante cinque milioni di euro meno gli interessi per le poche ore in cui hanno detenuto i 450 milioni prestati. Tutto senza pagare imposte.
Ma come è possibile che i fondi hedge, nel 2000 ancora in posizione assai marginale, abbiano acquisito una simile centralità, limitando i propri profitti a pochi beneficiari perché si tratta di fondi chiusi? La prima risposta, quasi spontanea, discende dal fatto che il mercato è stato ucciso dal capitalismo, ma in realtà ne esiste un’altra. È accaduto perché la politica non si è mai occupata della questione o non ha voluto occuparsene. Tutta la regolamentazione degli hedge fund, in Italia, è figlia di una norma europea del 2011 tradotta, in maniera assai confusa, nei decreti ministeriali del 2011 e soprattutto del marzo 2015, in cui l’unica preoccupazione era ribadire che si trattava di fondi chiusi; in pratica, solo pochi potevano fare soldi. Il Parlamento pare non essersene accorto. Intanto i dati ci forniscono un’altra chiave di lettura.
Istat ha pubblicato di recente uno studio sull’andamento delle disuguaglianze in Italia nel 2020 che ha utilizzato il noto coefficiente di Gini. Emerge che durante l’intero anno in esame le disuguaglianze si sono ridotte con una significativa diminuzione dell’indice sceso da 44,3 a 30,2 punti; un dato assai rilevante che dipende quasi esclusivamente dal forte intervento pubblico e dalla spesa pubblica, in grandissima parte finanziata con il debito pubblico. In altre parole nel momento in cui il Pil è sceso dell’8,9%, l’intervento pubblico ha consentito una riduzione delle disuguaglianze. Alla luce di ciò ridurre il peso degli hedge per dare spazio a politiche economiche sarebbe la strada giusta.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.
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