Esteri / Reportage
Il difficile ritorno a casa delle salme dei morti lungo la rotta balcanica
Nell’Europa dei muri non è mai stato adottato un protocollo per assistere le famiglie nella lunga e tormentata procedura di identificazione e rimpatrio. La storia di una famiglia che ha atteso due anni e mezzo il rientro in Marocco
“Quando immaginavo la mia vecchiaia davo per scontato che sarebbe stato Yasser a occuparsi di me e di mio marito. Organizzare la cerimonia di addio al proprio figlio è una cosa che nessun genitore si aspetta di dover fare. E anche se accetto la volontà di Allah, sentirò per sempre la sua mancanza”. La signora Haiat parla nel salotto della sua casa nel centro di Fes, la seconda città più popolosa del Marocco. Ha passato le ultime settimane a preparare il funerale del figlio deceduto lungo la rotta balcanica. E anche se ogni parola o ricordo di lui la costringono a un doloroso sforzo di presa di coscienza, nella sua voce si avverte anche del sollievo. Lei, la figlia Kawtar e il marito Noureddine attendevano il ritorno del corpo di Yasser dal maggio del 2020, ossia dal giorno in cui, attraverso una pagina Facebook, avevano scoperto che era stato ritrovato senza vita in un fiume in Croazia, durante il suo viaggio migratorio verso i Paesi del Nord Europa.
“Avrei voluto che la lapide di mio figlio restasse nei Balcani, a testimonianza del male che possono fare le mancate politiche di accoglienza”, spiega il padre, Noureddine, che ha trascorso gli ultimi due anni e mezzo a fare telefonate al consolato e a compilare documenti per portare a termine il processo di rimpatrio: “Ma il desiderio di sua madre era di riaverlo qui, in Marocco, vicino alla sua famiglia. E dopo tanta fatica, ce l’abbiamo fatta”. Le pratiche per far tornare Yasser nella sua città d’origine sono rimaste bloccate per oltre due anni a causa della pandemia, e anche i costi per l’esumazione dal cimitero croato e per il trasporto della salma sono aumentati considerevolmente a causa della crisi energetica, fino a raggiungere la cifra di cinquemila euro.
Ma le fatiche attraversate dalla famiglia del giovane non rappresentano un caso eccezionale. Nei Paesi africani e mediorientali interessati da un’intensa migrazione in uscita come il Marocco, sono decine le persone che ogni anno si trovano ad affrontare in solitudine le complessità e le spese del rimpatrio dei cari deceduti lungo la rotta balcanica.
“In Marocco ci sono persone che non sono mai uscite dal proprio villaggio, che parlano solo berbero, che non hanno mai spedito un documento o prenotato un appuntamento online. Può capitare che alcuni di loro scelgano di arrendersi dopo l’ennesima chiamata in ambasciata andata a vuoto, e non è giusto”, prosegue Noureddine che ha alle spalle una lunga esperienza come attivista per i diritti civili. Da quando si è messo a disposizione di altre famiglie nella sua stessa situazione, il suo cellulare squilla in continuazione. Le persone lo contattano per sapere che cosa fare quando le ambasciate non offrono supporto o per farsi accompagnare personalmente a un appuntamento importante. “Prima di perdere mio figlio non sapevo nulla di questo dramma -racconta-. Ora che ci sono passato anche io, voglio essere a disposizione dei genitori che hanno bisogno di aiuto”.
Il fenomeno migratorio ha cominciato a interessare la regione balcanica nel 2014 e da allora la mancanza di sostegni ufficiali da parte dei governi nella gestione delle persone scomparse ha portato alla nascita di diversi canali informali in cui viene offerta assistenza ai parenti delle vittime in tutte le fasi successive al decesso: dal ritrovamento all’identificazione, dal rimpatrio alle spese per il funerale. È il caso, ad esempio, del gruppo Facebook “Dead and missing in the Balkans”, dove si postano le fotografie degli scomparsi e si dà il via a un incrocio di informazioni tra volontari, migranti e familiari per ricostruirne le sorti. O dell’associazione Tahara con sede in Francia, che porta avanti una campagna di raccolta fondi permanente per coprire le spese di rimpatrio dei corpi, e che ha dato una mano anche alla stessa famiglia Bendahou Idrissi.
“La morte di Yasser è responsabilità dell’Unione europea. Ora che non c’è più, io ho il diritto alla verità e la cercherò fino al mio ultimo respiro” – Noureddine Bendahou Idrissi
Per Noureddine, tuttavia, riportare la salma di Yasser in Marocco non rappresentava l’unica battaglia. “Quando ho iniziato a ricevere conferme sulla morte di mio figlio dalla Croazia, i ragazzi che viaggiavano con lui hanno continuato a dirmi che non era vero, che Yasser era vivo, dandomi versioni dei fatti contraddittorie. Io ero confuso e volevo che mio figlio fosse tenuto in obitorio per poter fare un’altra autopsia, per vederci più chiaro. Invece i servizi cimiteriali croati lo hanno sepolto senza il mio permesso. Nessuna azione investigativa è stata intrapresa dalle autorità croate o marocchine per scoprire la verità. Eppure io ho il diritto di sapere cosa è successo, se qualcuno gli ha fatto del male”.
La sua vicenda ha trovato largo spazio su diversi canali marocchini e la petizione che ha indirizzato alla Corte europea dei diritti dell’uomo per chiedere l’avvio delle indagini sulla morte del figlio ha raccolto oltre seimila firme in pochi giorni. “Yasser non aveva un visto, io e sua madre siamo sempre stati contrari alla sua scelta di partire illegalmente. Ma non ha mai fatto male a nessuno, aveva il diritto alla vita come ogni altro essere umano. La sua morte, insieme a quella di centinaia di altri giovani che vogliono spostarsi per cercare condizioni di vita migliori, è responsabilità dell’Unione europea. Ora che non c’è più, io ho il diritto alla verità e la cercherò fino al mio ultimo respiro”.
Anche se una cifra ufficiale non esiste, secondo un report dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni sarebbero circa un migliaio le persone che hanno perso la vita lungo la rotta balcanica dal 2014 a oggi. Potrebbe però trattarsi di un dato al ribasso, dal momento che i luoghi remoti in cui questi decessi avvengono e le notizie frammentarie sui ritrovamenti rendono complesso un vero tracciamento.
Nonostante i numeri, tuttavia, a livello europeo non è stato avviato alcun programma ad hoc per assistere i parenti che cercano un proprio caro o che vogliono riavere la salma. Per ogni famiglia, la facilità con cui avviene il rimpatrio dipende dalla disponibilità fornita dell’ambasciata di riferimento, che è ufficialmente l’istituzione che si deve occupare di questo processo. Tuttavia, per molte persone comuni che vivono in contesti di conflitto o di estrema povertà è complicato gestire il lungo e articolato iter burocratico. Un caso ancora più problematico è rappresentato dalle famiglie che vivono in Paesi che non sono rappresentati da un’ambasciata negli Stati in cui il parente è morto. Per tutte queste ragioni, il compito di seguire i familiari delle vittime è stato informalmente assunto dai volontari attivi nell’area, che spesso si occupano di supportare i parenti delle vittime, anche economicamente.
“Noi persone comuni ci occupiamo di assistere le famiglie, di fare da intermediari con le agenzie funebri. Cosa accadrà quando non avremo più le forze?” – Marijana Hamersak
“Ogni caso è diverso, ci sono rimpatri che avvengono in cinque giorni dalla morte e altri per cui ci vogliono mesi, se non addirittura anni, anche se l’identificazione è già stata fatta. Dipende anche dal protocollo del Paese d’origine -spiega Marijana Hamersak, ricercatrice croata di Etnologia all’Università di Zagabria che con alcuni colleghi monitora il fenomeno delle morti sulla rotta-. È molto significativo che non esista un sistema ufficiale per gestire questi processi. Noi persone comuni ci occupiamo di assistere le famiglie, di fare da intermediari con le agenzie funebri locali. Ma che cosa succederà quando noi singoli non avremo più il tempo o le forze?”.
La speranza degli attivisti è che venga istituito a livello europeo un ente indipendente per assistere i parenti delle vittime, una realtà super partes che non coinvolga nel delicato processo di identificazione e di rimpatrio quelle stesse autorità che hanno negato accoglienza e in molti casi torturato i migranti poi deceduti. Ma, le probabilità che ciò avvenga al momento sono basse. “Gli Stati europei hanno il loro vantaggio a tenere queste morti senza nome, perché se non c’è il nome, non c’è il caso. Anche per questo si continua a parlare delle scomparse sulla rotta balcanica come se si trattasse di incidenti -conclude Hamersak-. Ma questi non è così: la responsabilità di quanto accade non è delle condizioni climatiche, dei fiumi o dei burroni, bensì dell’attuale funzionamento delle politiche migratorie”.
© riproduzione riservata