Esteri / Reportage
Il commercio delle armi tiene sotto tiro il Messico. Il ruolo dell’Italia
Nel Paese l’esercito controlla le forniture armate destinate alla polizia. Un flusso opaco in cui si inseriscono anche aziende europee che rifiutano però ogni responsabilità nonostante un contesto segnato da violenze e abusi
È il 26 settembre 2014, da ore la pioggia bagna le strade già buie di Iguala, nello Stato di Guerrero. In tre punti della cittadina piovono anche proiettili. La polizia municipale ha intercettato gli autobus che trasportano gli studenti della scuola di Ayotzinapa -in viaggio verso Città del Messico per il 46esimo anniversario del massacro studentesco di Tlatelolco- e spara. L’attacco dura fino a notte inoltrata. Vengono uccise sei persone, 25 sono ferite e 43 ragazzi di Ayotzinapa vengono arrestati e fatti sparire in maniera forzata. Di loro non si saprà più nulla.
Sull’asfalto umido rimangono decine di bossoli. Alcuni di questi appartengono ai fucili d’assalto G36 dell’impresa tedesca Heckler & Koch, tra le più influenti produttrici di armi leggere e di piccolo calibro al mondo. I G36 non sono però le uniche armi di fabbricazione europea che la polizia di Iguala -che per il caso Ayotzinapa è stata accusata poi di collusione con il gruppo criminale Guerreros Unidos- aveva in dotazione all’epoca. In mano a queste forze dell’ordine c’erano anche 73 fucili d’assalto made in Italy provenienti dal comune bresciano di Gardone Val Trompia e firmati Beretta (contattata da Altreconomia, l’azienda non ha mai risposto).
Quella di Iguala non è l’unica polizia messicana a disporre di armamenti Beretta. Dal 2006 al 2018 -periodo in cui il Messico è precipitato in un’incessante voragine di violenza- l’azienda italiana ha infatti prodotto più di un terzo delle 238mila armi acquistate dalla Secretaría de la defensa nacional (Sedena) e distribuite poi alle polizie locali. Con l’approvazione dell’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama), struttura in seno al ministero degli Esteri italiano, nello stesso periodo Beretta ha venduto al Messico 108.660 armi; di queste 25mila sono fucili e altre armi lunghe, sia automatiche sia semiautomatiche.
“L’esercito si occupa de facto e de iure di tutte le armi che arrivano e circolano nel Paese. È un sistema di distribuzione che crea molta opacità e impunità” – Carlos Pérez Ricart
È quanto riporta il dossier “Commercio mortale. Come le armi europee e israeliane stanno aggravando la violenza in Messico”, pubblicato a dicembre 2020 da una rete internazionale di associazioni, di cui fa anche parte l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal, opalbrescia.org) di Brescia, e basato su oltre novemila documenti ufficiali declassificati ottenuti dalla Sedena. Il rapporto evidenzia come l’export di materiale bellico verso un Paese come il Messico -in cui solo nel 2019 24mila persone sono state uccise con armi da fuoco- violi diversi principi della Posizione comune dell’Unione europea sull’esportazioni di armi come, per esempio, la concessione di licenze esclusivamente sulla base di una conoscenza preliminare dell’uso finale che ne verrà fatto.
“Quello messicano è un modello unico al mondo: l’esercito si occupa de facto e de iure di tutte le armi che arrivano e circolano nel Paese. È un sistema di distribuzione che crea molta opacità e impunità”, spiega ad Altreconomia Carlos Pérez Ricart, docente di Relazioni internazionali del Centro per la ricerca e l’insegnamento in economia di Città del Messico (Cide).
24mila sono le persone uccise con armi da fuoco nel 2019 in Messico
Le incongruenze tra quante armi richieda la polizia e quante effettivamente arrivino a destinazione sono molte, continua il docente. Ogni anno infatti migliaia delle armi che entrano legalmente nel Paese si “perdono”: vengono rivendute, affittate, regalate. “Fino a quando questo problema non sarà risolto, firmare un accordo di vendita di armi con il governo messicano implicherà la possibilità che queste finiscano per essere utilizzate in attività criminali”, afferma Pérez Ricart. Secondo il rapporto “Commercio mortale”, molte di queste armi smarrite e contrabbandate sono di fabbricazione italiana: 2.744 (soprattutto pistole Beretta) delle oltre 61mila armi sequestrate dall’esercito messicano tra il 2010 e il 2020.
“A noi interessa sapere se le armi leggere italiane vanno a finire in Paesi che sono a rischio di insurrezione popolare o dove, come è il caso del Messico, ci sono violazioni evidenti dei diritti umani o violenze da parte dell’esercito e della polizia”, spiega Carlo Tombola, direttore scientifico di Opal. Secondo le norme previste dal Trattato internazionale sul commercio di armi e dalla citata Posizione comune dell’Unione europea, prima di approvare l’esportazione di armamenti gli Stati devono accuratamente valutare caso per caso anche gli eventuali danni e ricadute sui diritti umani. “Noi non chiediamo di azzerare il settore, chiediamo solo di controllare quello che succede: se si mandano le armi in Messico ci sono determinate conseguenze”, sottolinea Tombola.
“L’azienda può trincerarsi dietro il fatto che l’esportazione è stata autorizzata da un organo statale? Se l’utilizzo delle armi è illegittimo la risposta è no” – Giuseppe Sambataro
“Ci è voluta Ayotzinapa per farci capire la gravità del problema”, aggiunge Pérez Ricart. Come segnala nel suo articolo “Armi tedesche in Messico: il caso dell’esportazione verso il Messico dei fucili Heckler & Koch G36”, pubblicato dall’associazione México vía Berlín, il record criminale delle armi dell’azienda tedesca inizia ben prima della notte di Iguala. Nel 2010 cinque fucili HK-G36 vennero confiscati nel porto di Acapulco, Guerrero, mentre nel 2012, sempre in Guerrero, tre civili furono feriti con proiettili di HK G36. Un anno prima, nello stesso Stato, durante una manifestazione la polizia uccise con HK G36 Alexis Herrera Pino e Gabriel Echeverría de Jesús, studenti ventenni della scuola di Ayotzinapa.
Nel 2006 Heckler & Koch e la Sedena firmarono un accordo commerciale per la vendita di circa diecimila fucili; il permesso per l’esportazione venne approvato dal governo tedesco con la condizione di non vendere le armi a quattro Stati messicani -Chihuahua, Jalisco, Chiapas e Guerrero- in cui le violazioni dei diritti umani erano più feroci che altrove. Difficilmente però le armi, e i profitti, rispettano le frontiere e più della metà di quel carico finí proprio negli Stati banditi.
Grazie soprattutto alla pressione di attivisti, accademici e giornalisti che rivelarono quell’esportazione illegale, nel 2019 il tribunale di Stoccarda ha condannato Heckler & Koch a pagare una multa di 3,7 milioni di euro (nello stesso anno il fatturato del gruppo è stato di 239,4 milioni). Dal 2010 la Germania ha adottato una politica più rigida che proibisce in gran parte l’esportazione di armi leggere verso il Messico. In risposta le aziende tedesche hanno iniziato a giocare la carta dell’internazionalizzazione, trasferendo la propria produzione negli Stati Uniti.
Da quel Paese è infatti più agevole trasferire le armi nel mercato messicano e in quelli di altri Paesi dell’America Latina. La stessa strategia, secondo il dossier “Commercio mortale”, sarebbe praticata anche da aziende italiane come il gruppo Fiocchi Munizioni. La sentenza sulla Heckler & Koch mette in luce un altro aspetto critico e ancora scarsamente regolato dell’export delle armi: la responsabilità etica e giuridica delle aziende.
2.744 sono le armi italiane sequestrate dall’esercito messicano tra il 2010 e il 2020
Il tema è analizzato dagli avvocati Giuseppe Sambataro, Stefano Trevisan e Laura Duarte Reyes nel recente articolo “Due diligence delle imprese e diritti umani: profili penalistici dell’esportazione di armamenti”, pubblicato sulla nona edizione della rivista web “Giurisprudenza Penale” del 2020. “La domanda a cui abbiamo cercato di rispondere è: l’azienda può trincerarsi dietro il fatto che l’esportazione sia stata autorizzata da un organo statale? Se l’utilizzo delle armi è illegittimo la risposta è no”, spiega Sambataro.
Nonostante le normative in vigore parlino chiaro, le autorizzazioni vengono rilasciate quasi sistematicamente e con scarso rigore: è a partire da questa premessa, avverte l’avvocato, che le imprese tendono a giustificarsi. “L’autorizzazione in alcuni casi riguarda peraltro un lasso di tempo prolungato perché lo Stato fa una valutazione iniziale che poi per legge dovrebbe rieseguire regolarmente. È evidente come l’azienda che interloquisce constantemente con i Paesi importatori sia in una posizione di responsabilità: non può quindi nascondersi dietro lo Stato ma dovrebbe anzi fare una valutazione autonoma molto più immediata”.
Prima di invocare la “mannaia punitiva del diritto penale”, aggiunge Sambataro, bisognerebbe auspicare che ci sia una volontà politica forte: senza questa, per quanto l’azienda abbia una responsabilità propria, delegare esclusivamente ai privati risulterebbe quanto meno ipocrita.
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