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Diritti / Inchiesta

I rifugiati fuori dal sistema di accoglienza. Anche se ci sono migliaia di posti liberi

A Trieste, senza accoglienza © Francesco Cibati

I dati inediti ottenuti da Altreconomia fotografano più di 2mila letti vuoti nel Sistema di accoglienza e integrazione (Sai, ex Sprar) che crescono di mese in mese nonostante l’aumento degli arrivi. Inoltre il 20% dei posti finanziati non risultano occupati. Una “riserva politica” per poter gridare all’emergenza

Più di duemila posti vuoti nonostante migliaia di richieste di inserimento da parte di richiedenti asilo e rifugiati, con solamente l’80% dei posti finanziati dal ministero dell’Interno realmente occupati. I dati ottenuti da Altreconomia a fine ottobre 2023 mostrano un fallimento: nell’ultimo anno, mentre nelle città italiane decine di persone dormivano all’addiaccio, il secondo livello di accoglienza per i migranti rimaneva ampiamente sottoutilizzato. “È un dato che necessita di una chiave di interpretazione politica e non meramente tecnica -commenta Michele Rossi, direttore del Centro immigrazione asilo e cooperazione onlus (Ciac) di Parma-: dal 2018 a oggi il sistema invece di essere valorizzato e ampliato in linea con il bisogno reale, è sempre rimasto all’80% del suo potenziale. L’esclusione dell’accoglienza per i richiedenti asilo, fatta prima con il ‘decreto Salvini’ poi nuovamente nel 2023, si dimostra una misura paradossale e la scelta governativa di istituire oggi campi e tendopoli quando ci sarebbero posti disponibili assume una luce ancora più sinistra: smentisce ogni possibile retorica dell’emergenza su cui si fonda il paradigma della segregazione nei campi”.

Per la prima volta il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, in seno al Viminale, ha inviato anche il numero delle richieste pervenute dai Centri di accoglienza straordinaria (Cas), il primo livello d’accoglienza, proprio ai Sai. Il dato è sconcertante. Da gennaio a marzo 2023 le richieste totali sono state 11.218 mentre gli inserimenti 6.482, ovvero il 57% del totale. Mancanza di posti? No, perché i numeri dicono che gli inserimenti sarebbero potuti avvenire per tutti, con ancora 27 posti in disavanzo. Un dato ancora più pesante se si considera che tra questi “posti fruibili”, sono già esclusi quelli “temporaneamente non fruibili” (circa 1.100 di media al mese): nel caso di strutture danneggiate, piuttosto che accoglienze più complesse che richiedono maggior attenzione, gli operatori possono decidere di ridurre temporaneamente il numero di accolti. Quindi i 2mila posti vuoti di media mensili non trovano alcuna spiegazione. Così come i 151 vuoti liberi nel sistema DM-DS, riservati a persone con vulnerabilità psicologiche e psichiatriche, sugli appena 601 occupati (il 75% di quelli finanziati).

“L’unica motivazione pare essere quella di lasciare posti liberi che rimangono a disposizione per ragioni di natura politica (disporre di una riserva) evitando di utilizzare il sistema per ciò che la legge prevede, ovvero rispondere alle richieste di inserimento fino a esaurimento dei posti disponibili -osserva Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) e socio dell’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione-. Un fatto che si vuole evitare perché aprirebbe un dibattito pubblico sul fabbisogno di posti necessari e sulla radicale mancanza di criteri di programmazione del Sai, come d’altronde avviene per l’intero sistema di accoglienza pubblico. Il sistema Sai presenta dunque tutte insieme nello stesso tempo caratteristiche tra loro contraddittorie: c’è sempre posto per nuovi inserimenti ma nello stesso tempo è sempre insufficiente a rispondere alle esigenze effettive”. Richieste che, tra l’altro, crollano da marzo 2023 in poi con una riduzione nettissima: il numero delle persone che hanno chiesto accoglienza a marzo (4.381) è maggiore di tutte quelle che l’hanno fatto da aprile e giugno (quasi 4mila). Il cosiddetto “decreto Cutro”, del 10 marzo 2023, prevede l’impossibilità per i richiedenti asilo di accedere proprio al sistema Sai e quella delle prefetture sembra essere una “censura preventiva”, prima ancora che quella “regola” diventasse legge. Le segnalazioni sono oggi attribuite alle stesse prefetture che però non hanno spesso un reale polso delle situazioni territoriali complessive.

Ma, come detto, non è solo problematico il numero di posti vuoti nelle strutture di accoglienza perché la discrepanza tra i “posti finanziati” e quelli “occupati” è costantemente del 20%. Che cosa significa? A luglio 2023, per esempio, a fronte di 43.469 posti attivabili c’erano appena 34.761 persone accolte. Una forbice su cui incidono diversi elementi, come i mancati inserimenti da un lato, ma anche una complessa dinamica che Michele Rossi sintetizza così: “Certamente ci possono essere strutture che necessitano di ristrutturazione, cambi di destinazione che impongono lavori e temporanee sospensioni -spiega- ma nel comprendere perché così tanti posti finanziati non siano poi immediatamente attivati andrebbe indagata anche la tempistica burocratico e amministrativa tra domanda dei Comuni e approvazione del finanziamento da parte del ministero. I progetti devono garantire case a un dato tempo, ma non sono certi della loro approvazione: con tempi molto lunghi di risposta da Roma quei contratti possono perdersi, necessitando di sostituire con altre strutture al momento dell’approvazione effettiva. Ad esempio all’ottobre 2023 non si sa ancora se migliaia di posti in scadenza al 31 dicembre potranno essere rinnovati. Senza tale garanzia c’è il rischio concreto di perdere i contratti di affitto in essere e di perdere a gennaio posti teoricamente finanziati”.

I dati di Altreconomia ricostruiscono come da gennaio 2022 a luglio 2023 la media dei posti occupati sui finanziati sia del 79%. “Se allarghiamo lo sguardo agli anni precedenti, il dato è lo stesso -aggiunge Rossi- e questo fa riflettere parecchio perché la proporzione di un quinto di posti pieni sui vuoti l’abbiamo ritrovata, negli stessi anni, anche sui Centri di accoglienza straordinaria, unico dato che permane al variare delle diverse ‘emergenze’ e delle diverse configurazioni del sistema stesso”.

Come ricostruito nell’inchiesta “Accoglienza selettiva”, infatti, nell’agosto 2022 le persone richiedenti asilo dormivano per strada e non venivano inserite nei Cas nonostante ci fossero più di 5mila posti vuoti. Vuoti che via via sarebbero andati -il condizionale è d’obbligo perché i dati in questo caso sono forniti direttamente dal ministero e non dalle singole prefetture- riempiendosi (ne abbiamo scritto qui), ma che evidentemente non sono andati esaurendosi nel Sai. “È un sistema dalle regole di funzionamento non trasparenti che solo in modo parziale opera sulla base di regole predeterminate e finalizzato a dare attuazione a quanto previsto dalla legge, ovvero dare accoglienza ai richiedenti asilo (solo i casi vulnerabili a partire dalla legge 50 del 2023), ai beneficiari di protezione internazionale e speciale e alle altre fattispecie previste dalla normativa”, commenta Schiavone.

Sono rilevanti anche i dati sulla fine dei percorsi di chi esce dall’ex Sprar. Dal gennaio 2022 al luglio 2023 solo il 22% (media mensile) delle persone che hanno concluso con l’accoglienza l’ha fatto per “inserimento socio-economico”; il 29% ha visto scadere il termine massimo del progetto (quindi potenzialmente è finito per strada) e ben il 47% delle persone che è uscito mensilmente l’ha fatto “volontariamente prima della scadenza dei termini”. “Certamente è un dato che va valutato con molta cautela: se il criterio con cui le diverse ‘uscite’ possono essere attribuite all’inserimento socio-economico è abbastanza evidente, trattandosi nei fatti di casi in cui sussistono formali contratti di lavoro e di affitto non lo è altrettanto per la categoria ‘uscita volontaria prima dei termini’, che -aggiunge Rossi- potrebbe sommare sia persone che decidono di abbandonare il progetto di accoglienza volontariamente per riprendere il loro percorso migratorio, sia situazioni in cui le persone reperiscono lavoro o alloggio, ma questi sono talmente precarie o addirittura irregolari, in nero, da essere incompatibili con la prosecuzione del progetto. In questo caso, se tale ipotesi fosse anche solo parzialmente confermata, manifesterebbe la gravità delle condizioni del mercato del lavoro e degli alloggi per le persone straniere in Italia: un tema da troppo tempo dimenticato e che vede una crescente ricattabilità dei migranti, costretti ad una integrazione subalterna e costretti ad una perdurante invisibilità sociale”.

A prescindere dalle specifiche motivazioni, infatti, il dato è netto: il 76% delle persone che escono dal sistema non hanno un percorso di inserimento socio-abitativo e lavorativo adeguato. “Per quali motivi non dovremmo definire estremamente grave tale situazione? -si interroga Schiavone-. Gli interventi di inserimento realizzati sono complessivamente inadeguati? C’è un’eccessiva rigidità nella tipologia degli interventi che i progetti sono autorizzati a realizzare e ciò gli impedisce di attuare strategie efficaci? Il tempo di accoglienza è troppo breve rispetto a quello che ragionevolmente sarebbe necessario per il raggiungimento degli obiettivi? Probabilmente tutti questi fattori, con pesi diversi, giocano un ruolo e concorrono a delineare un sistema gravemente fallimentare proprio rispetto al ruolo quasi esclusivo che la legge gli assegna ovvero realizzare percorsi efficaci di inserimento sociale dei beneficiari”. Schiavone sottolinea che le crescenti difficoltà che il Sai incontra nel realizzare percorsi efficaci di inserimento sociale dei beneficiari sono dovute anche al generale peggioramento delle condizioni economiche della popolazione. “Ma è necessario -conclude- evidenziare che un fallimento c’è e onestà intellettuale imporrebbe che se ne parlasse. Ma di una discussione serena e propositiva in tal senso non c’è traccia: la polvere viene messa sotto il tappeto”.

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