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I popoli del Kenya minacciati da progetti di conservazione e crediti di carbonio
Gli Ogiek, abitanti della foresta Mau nel Sud del Paese, sono oggetto di violenti sgomberi da parte del governo per far posto a progetti di conservazione realizzati dall’agenzia governativa Kenya forest services in collaborazione con un’azienda olandese che agisce nell’interesse dell’industria del tè. La denuncia delle Ong
Gli Ogiek, popolazione indigena che abita la foresta Mau nel Sud del Kenya, stanno venendo cacciati dalle loro terre dal governo del Paese per far posto a progetti di conservazione della natura realizzati dall’agenzia governativa Kenya forest services (Kfs) in collaborazione con Idh, un’azienda olandese che agisce nell’interesse dell’industria del tè. Nonostante lo sfratto degli Ogiek sia stato vietato dalla legge keniota e da una sentenza della Corte africana sui diritti umani e dei popoli. È la denuncia presentata da Survival international, movimento internazionale a tutela dei popoli indigeni, insieme ad Amnesty international e a Minority rights group.
“Più di 700 persone sono rimaste senza casa a seguito degli sgomberi. Molti abitanti, tra cui bambini e persone con disabilità, si sono rifiutati di lasciare la loro terra e al momento vivono all’aperto, esposti alle intemperie”, si legge nella nota congiunta pubblicata dalle organizzazioni a inizio dicembre 2023. “Non è la prima volta che il governo keniota prova ad allontanare gli Ogiek ma stavolta temiamo si tratti di un attacco su una scala decisamente superiore -racconta ad Altreconomia Fiore Longo, ricercatrice per Survival international-. Inoltre, eravamo convinti che la sentenza della Corte avesse posto fine a questa prassi e i recenti sfratti ci hanno colto di sorpresa”.
Al centro della contesa c’è la foresta Mau, nella parte Sud-occidentale del Kenya, che copre un’area di oltre 400mila ettari e rappresenta una risorsa fondamentale dal punto di vista ecologico per il Paese e per alcune regioni dell’Africa orientale. La Foresta influenza il microclima della regione, come le precipitazioni, creando le condizioni ideali per le colture come il tè. L’area è considerata una delle principali “torri d’acqua”, ovvero foreste montane che fungono da serbatoi idrici naturali, del Kenya e di conseguenza una percentuale significativa dell’energia idroelettrica viene generata nella zona, inoltre, più di dieci milioni di persone dipendono dai suoi fiumi per l’accesso alle risorse idriche. Non desta quindi sorpresa che il governo keniota abbia interesse a tutelare questo ecosistema. In particolare, vista la già citata importanza della Foresta nella coltivazione del tè, nelle operazioni di conservazione è stata coinvolta un’azienda olandese che difende gli interessi del settore. Secondo il Kfs, l’azienda ripristinerà e si occuperà della conservazione generale della foresta Mau Sud-occidentale. “L’azienda ha già collaborato per la rigenerazione di circa 1.200 ettari e la costruzione di quattro avamposti per le guardie forestali”, ha dichiarato il Kfs in un comunicato. Ma l’obiettivo è quello di portare gli ettari protetti a 60mila nei prossimi sei anni. “Ci basiamo sull’interesse di aziende produttrici di tè e di altre imprese a conservare la foresta Mau Sud-occidentale per i servizi microclimatici che offre e per migliorare i mezzi di sussistenza delle comunità”, riporta Idh nel suo programma.
Tuttavia, nonostante i “buoni propositi”, la protezione della foresta è realizzata a discapito dei popoli indigeni e questo può risultare controproducente e portare a una perdita di biodiversità. A inizio ottobre il presidente del Kenya William Ruto ha annunciato l’espulsione immediata delle persone che vivono nella foresta Mau. “Dietro le scelte del governo si nasconde un’ideologia razzista e coloniale secondo la quale i popoli indigeni che hanno abitato quella terra da sempre non sono in grado di prendersene cura in maniera adeguata -continua Longo-. Ma la sentenza della Corte africana, che riguarda proprio gli Ogiek, ha confermato che non ci sono prove sul fatto che il governo possa tutelare la foresta meglio di questo popolo”.
Un’ulteriore minaccia alle popolazioni autoctone consiste nei cosiddetti crediti di carbonio, basati su operazioni di tutela della foresta e della natura che consentono all’ecosistema di assorbire più anidride carbonica o di evitarne il rilascio. La CO₂ così “risparmiata” viene conteggiata in apposi crediti che possono venire acquistati da aziende intenzionate a compensare le proprie emissioni. Sono molte le multinazionali che hanno acquistato questi prodotti in Kenya, tra cui Meta (che possiede Facebook, Instagram e WhatsApp) e Netflix. “Il Kenya ha di recente annunciato un’iniziativa per lo scambio di crediti di carbonio su milioni di ettari nel Paese. Chiediamo al governo di chiarire se gli sfratti degli Ogiek sono collegati a questa iniziativa -si legge nella nota-. I progetti di carbonio basati sulle foreste sono particolarmente problematici, poiché spesso prendono di mira i popoli indigeni e i loro modi di vita piuttosto che i veri responsabili della crisi climatica. Sebbene vi siano prove sempre più evidenti che gli attuali schemi di compensazione non sono riusciti a mitigare il cambiamento climatico, essi hanno già avuto un impatto negativo sulla vita e sui diritti fondiari delle popolazioni indigene in Kenya e non solo”.
Secondo una ricerca realizzata dal Guardian in collaborazione con il settimanale tedesco Die Zeit e al gruppo di ricerche Source material, infatti, l’efficacia dei crediti di carbonio nel ridurre le emissioni climalteranti sarebbe alquanto limitato. I ricercatori hanno analizzato i progetti valutati da Verra, la più grande azienda al mondo che certifica i crediti di carbonio e hanno scoperto che più del 90% di queste iniziative non ha portato a un’effettiva riduzione delle emissioni. Il rischio è che la maggior parte delle compensazioni si traducano in operazioni di greenwashing utilizzate dalle aziende per continuare il loro business. Mentre a farne le spese sono persone, come gli Ogiek, che hanno contribuito di meno alla crisi climatica. “Al momento in Africa sono pochissime (o addirittura non esistono proprio) le aree di conservazione realizzate in collaborazione con i popoli indigeni. Mentre la maggioranza è costituita da vere e proprie zone militarizzate dove non è possibile accedere -conclude Longo-. Se il sistema dei crediti di carbonio troverà finanziamenti e approvazioni questo potrà favorire ulteriori violenze verso i popoli indigeni”.
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