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La “guerra perpetua” che soffoca le democrazie

Il clima di conflitto permanente è pervasivo e condiziona le scelte politiche, economiche e sociali. Il suo collante ideologico è irrazionale: la paura

Tratto da Altreconomia 201 — Febbraio 2018

La lettura incrociata di due libri recenti aiuta a mettere a fuoco il clima di guerra permanente nel quale viviamo e le conseguenze politiche, economiche e sociali che ne discendono. Uno (“Che guerra sarà”, Il Mulino) lo ha scritto un ex generale, Fabio Mini, già capo di stato maggiore della Nato nel Sud Europa. L’altro è opera di un economista, Raul Caruso, che si è misurato sul tema indicato dal titolo: “Economia della pace” (anche questo edito da Il Mulino).

Mini svolge considerazioni molto sincere sull’effettiva natura e sulle prospettive di quello che nel 1961 Dwight Eisenhower, ex generale poi presidente degli Stati Uniti, in un suo celebre e allarmato messaggio alla nazione definì “il complesso militare-industriale”. “Ciò che non si dice né ai soldati né ai loro comandanti -scrive Mini- è che la guerra viene concettualmente impostata e organizzata perché non finisca mai. La guerra perpetua […] indica anche una situazione di continua tensione che potrebbe degenerare in ogni momento. Anche la guerra al terrore è perpetua”.

Se all’epoca della guerra fredda si confrontavano due modelli assai diversi di società -l’occidente capitalista e il blocco socialista- gli scontri e le tensioni geopolitiche del momento, nota l’ex generale, hanno un retroterra comune: “Tutti i sistemi mondiali condividono infatti l’ideologia del mercato che, da spazio economico, è diventato la discarica dell’ideologia della libertà: perché, di fatto, nulla è più chiuso, antidemocratico e illiberale del ‘libero mercato’ in cui prevale la legge del più forte”.

La corsa agli armamenti è in ripresa in tutto il mondo e nei mesi scorsi l’espansione dell’industria militare è stata salutata dal nostro governo con grande e plateale soddisfazione, come se la produzione e l’esportazione di armi e altri strumenti di guerra non avessero implicazioni etiche e politiche degne di considerazione. “È essenziale che l’industria militare sia il pilastro del sistema Paese”, si legge nell’ultimo Libro bianco del nostro ministero della Difesa. Questa disinvoltura è un chiaro segnale di quanto sia pervasivo quel clima di guerra perpetua indicato da Mini.

25 miliardi di euro: è l’ammontare delle spese militari previste per il 2018 dallo Stato italiano. L’incremento rispetto al 2017 è del 4%. Incidenza prevista sul Pil: 1,42% (Fonte: Mil€x)

Ma c’è di più. Qui interviene il lavoro di Raul Caruso, che si è cimentato in un’originale indagine prettamente economica sugli scenari di pace e le concrete pratiche di guerra. In un capitolo del suo libro, dati e ricerche internazionali alla mano, Caruso dimostra che l’industria militare -anche quando incide sul tasso di crescita del Pil- non fa bene all’economia. Gli investimenti militari sono improduttivi, non fanno avanzare lo sviluppo tecnologico (nonostante la credenza che sia vero il contrario), sottraggono risorse e cervelli molto specializzati all’economia civile. Le presunte “eccellenze” dell’industria militare sono in realtà una zavorra per l’economia in sé, oltre che per l’economia della pace.

La morale di simili constatazioni è che la “guerra perpetua” ha bisogno di un’economia della guerra e che tutto si tiene solo se persiste un robusto collante ideologico, necessariamente più emotivo e irrazionale che basato su presupposti logici e verificabili. Ecco che la politica dell’emergenza sicurezza, del governare con la paura, della “amplificazione a bella posta del fenomeno terroristico” (Mini) mostra la sua natura più profonda e più pericolosa. È di questo che parliamo anche quando non parliamo di guerra, è di questo che stanno morendo le nostre democrazie.

Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri
“Noi della Diaz” e “Parole sporche”

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