Diritti / Opinioni
Gli operatori umanitari non hanno i superpoteri
Quando subisce un attacco, anche chi è in missione per un’Ong ha paura. Ma non dovreste pensare che se l’è andata a cercare. “Il volo a pedali”, la rubrica di Luigi Montagnini
Tra “andare a cercare” e “andare a cercarsela” ci sono solo due sillabe di differenza dal punto di vista ortografico, ma c’è una distanza enorme per ciò che riguarda la semantica: dalla determinazione alla superficialità, dalla responsabilità al rischio, dal mandato alla denigrazione.
I fatti sono questi. Il 17 agosto, un motoscafo non identificato ha attaccato e sparato contro la Bourbon Argos, una delle navi di Medici Senza Frontiere (MSF), impegnata nelle attività di ricerca e soccorso dei migranti nel Mar Mediterraneo. L’attacco è avvenuto in acque internazionali, a 24 miglia nautiche a Nord della costa libica. A bordo della Bourbon Argos in quel momento non vi erano persone soccorse. Il personale di MSF, seguendo le procedure di emergenza, si è rifugiato in un’area protetta della nave. Un gruppo di uomini armati è salito a bordo della nave di MSF e dopo averla perlustrata, l’ha lasciata senza rubare o portar via nulla. Non ci sono stati feriti né tra il personale di bordo né tra lo staff di MSF.
Il team delle Burbon Argos è impegnato ogni giorno a cercare e salvare migranti. In molti abbiamo tirato un sospiro di sollievo nel conoscere la positiva conclusione di questa vicenda. Qualcuno invece avrà pensato “in fondo se la sono cercata”, soprattutto tra coloro che ci accusano di alimentare l’immigrazione illegale in Europa. Mi sono interrogato su che cosa abbiano vissuto i miei colleghi nei 50 minuti in cui sono rimasti rinchiusi nella stanza di sicurezza a bordo della nave. Credo che, tra le tante emozioni provate, ci sia stata anche la paura. E che, nei pensieri, qualcuno avrà incrociato il volto di quel caro amico che prima della partenza gli aveva raccomandato “non andartela a cercare”.
1.058: sono i milioni di euro spesi da Medici Senza Frontiere nel 2015 per finanziare tutti i suoi progetti nei 69 Paesi in cui è stata presente: questa cifra rappresenta l’82% di tutte quelle sostenute da MSF nel 2015 (fonte: MSF International Financial Report 2015)
Ricevo spesso attestati di stima per il mio impegno umanitario, da parenti stretti così come da persone sconosciute incontrate al termine di una testimonianza. Sono sempre sinceri, spesso graditi, talvolta fastidiosi, quando lasciano intendere che per partecipare a una missione umanitaria siano necessarie caratteristiche non comuni, prima tra tutte la temerarietà. Ma chi lavora per una organizzazione non governativa non è un supereroe. Non ha doti nascoste o poteri speciali. Soprattutto, come ogni altra persona consapevole di sé e del mondo che gli sta attorno, un operatore umanitario ha paura. La sa nascondere quando serve, la sa gestire senza lasciarsi sopraffare, la sa condividere con i colleghi, la sa trasformare in prudenza, ma sa bene che cosa sia. Ogni progetto, che sia su una nave nel Mediterraneo o in mezzo alla savana africana prevede una stanza di ibernazione. Così si chiama, “hibernation room”: è un luogo dove ci si raccoglie tutti in caso di pericolo, ed è dotata di una cassa con cibo e suppellettili varie per resistere in caso di isolamento prolungato. Non c’è progetto senza “hibernation room”, perché non c’è progetto senza rischi. Trovate aree di crisi senza pericoli. In Yemen ho passato una notte nella cantina dell’ospedale perché fuori sparavano. In Siria in un sottoscala nel timore che una delle bombe che cadevano vicino colpisse anche noi. In Sud Sudan ho rischiato di essere evacuato di urgenza per una lotta tra clan, cosa che è successa allo staff un mese dopo la mia partenza. In Afghanistan per un pomeriggio siamo rimasti chiusi in casa senza poter raggiungere l’ospedale a causa di un malinteso con un medico del luogo. Ho avuto paura? Sì. Cambia qualcosa? No. Continuiamo ad andare a cercare. Dispersi, feriti, malnutriti, ammalati, fragili. Cercare, non cercarsela.
Luigi Montagnini è un medico anestesista-rianimatore. Dopo aver vissuto a Varese e Londra, oggi è a Genova, dove lavora presso l’Istituto Gaslini. Da diversi anni collabora con Medici Senza Frontiere
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