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Esteri / Reportage

Gli attivisti messicani tracciano la “geografia della contaminazione”

“Fiumi messicani, fiumi avvelenati” è la scritta che compare sui manifesti esposti dagli attivisti di Greenpeace Messico durante una protesta vicino alla cascata Salto de Juanacatlán, sul fiume Santiago, uno dei più inquinati del Paese © Ivan Castaneira / Greenpeace

Nei “corridoi industriali” si concentrano attività impattanti, discariche e raffinerie che contaminano la terra e i corsi d’acqua. A gestirle, anche imprese europee e statunitensi. E a pagare il prezzo più alto sono le comunità locali

Tratto da Altreconomia 255 — Gennaio 2023

Una giovane donna si avvicina al microfono: “Abbiamo visto crescere una discarica fino all’inverosimile, tra continui incendi. Il fiume raccoglie ogni sorta di scarichi industriali. Ma per anni ci hanno detto che non abbiamo prove per parlare di inquinamento”. Atahualpa Sofia Enciso Gonzales parla a nome di un comitato di abitanti di El Salto, cittadina industriale nell’area metropolitana di Guadalajara nel Messico centrale. Racconta uno sviluppo industriale senza regole, visto da chi convive con l’inquinamento. 

La piccola città prende nome dalla vicina cascata formata dal río Grande de Santiago. “Ma ormai il fiume è pieno di schiuma maleodorante”, riprende la donna. E questo perché El Salto è al centro di uno dei “corridoi industriali” sorti nell’ultimo mezzo secolo in Messico e dove si concentrano industrie tessili e chimiche, della cellulosa e dell’acciaio, raffinerie e discariche. “Ci parlano di ‘vocazione industriale’, ma i reflui incontrollati di queste industrie hanno fatto del Santiago uno dei corsi d’acqua più inquinati al mondo -continua Sofia Enciso-. Chiediamo una moratoria sulle concessioni industriali”.

Altre voci si alternano al microfono, in un auditorium dell’Università nazionale autonoma del Messico (Unam). L’occasione è un incontro su “Neoliberalismo, contaminazione ambientale e gravi danni alla salute in Messico”, organizzato nel novembre 2022 dal Consiglio nazionale della scienza e della tecnologia (Conacyt) in cui scienziati, ricercatori e pubblici funzionari si sono confrontati con folte rappresentanze provenienti da undici Regioni di emergenza sanitaria e ambientale (Resa) sparse per tutta la federazione. 

Sono loro a tracciare una “geografia della contaminazione” nel Paese. Ad esempio la valle del Mexquital, sull’altipiano centrale tra gli Stati di Hidalgo e di México, all’incrocio di diversi corridoi industriali. Carolina Garcia Reyes, a nome di una rete di comitati della regione, elenca: una raffineria che rifornisce gli otto milioni di veicoli della zona metropolitana di Città del Messico, una centrale termoelettrica a gasolio, sette cementifici (che producono il 40% del fabbisogno del Paese), tre stabilimenti di fitofarmaci, oltre a un centinaio di altre fabbriche. Tutti questi impianti riversano i reflui non trattati nei fiumi, senza contare le acque nere della capitale. “Abbiamo cominciato a organizzarci nei primi anni Duemila, quando è stato annunciato il progetto di bruciare rifiuti nei cementifici”, spiega Carolina Garcia. Le proteste però non hanno avuto esito e gli abitanti non hanno trovato ascolto.

“Il fiume raccoglie ogni sorta di scarichi industriali. Ma per anni ci hanno detto che non abbiamo prove per parlare di inquinamento” – Sofia Enciso Gonzales

Dal Nord del Messico è arrivata nell’auditorium dell’Unam una delegazione dal bacino del fiume Sonora: qui nell’agosto del 2014 la più importante miniera di rame del Paese (Buenavista del Cobre) ha riversato 40 milioni di litri di acidi e metalli pesanti nel fiume Bacanuchi, affluente del Sonora. L’ondata di reflui rossastri si è estesa per 250 chilometri, ha contaminato invasi e pozzi e danneggiato una popolazione di oltre 22mila persone: secondo le autorità si tratta del peggior disastro della storia dell’industria mineraria messicana. Il giacimento appartiene al Grupo México, tra i più importanti del Paese e quarto produttore globale di rame. Otto anni dopo, il bilancio è ancora pesante. “Hanno promesso dieci impianti per potabilizzare l’acqua ma ne funzionano, in parte, solo due -spiega Martha Patricia Velarde Ortega a nome del Comitato del bacino del río Sonora-. Per anni le autorità e l’impresa hanno negato conseguenze per la salute delle persone. Ma un ampio studio ha rivelato la massiccia presenza di piombo, arsenico e cadmio nel sangue degli abitanti”. La comunità chiede una bonifica completa, un piano d’intervento sanitario, gli impianti di depurazione promessi e che “si dichiari lo stato di emergenza ambientale e sanitaria”. 

“L’inquinamento di origine industriale è il grande problema ambientale, legato al cambiamento climatico e alla crisi della biodiversità”, spiega Andrés Barreda Marin, docente della facoltà di Economia dell’Unam e coordinatore del programma di ricerca su sostanze tossiche e contaminazione industriale del Consiglio nazionale per la scienza e la tecnologia, promotore dell’incontro dello scorso novembre. “Ma la crisi ambientale resta ignorata -continua l’economista-. Cosa significa convivere con la contaminazione, quante persone sono morte a causa dell’inquinamento?”. 

Nel 2014 nel fiume Bacanuchi sono stati riversati 40 milioni di litri di acidi provenienti dalla miniera di rame Buenavista del Cobre. L’onda rossastra si è estesa per 250 chilometri, contaminando invasi e pozzi, danneggiando oltre 22mila persone

Per dare risposte a questi interrogativi era importante che ricercatori e tecnici si confrontassero con le comunità, che “rappresentano la prima risorsa informativa per capire i problemi alla salute e le conseguenze dell’inquinamento insieme e al pari dei tecnici. Sono loro a segnalare i cambiamenti del territorio e descrivere l’insorgere di malattie -osserva Barreda-. Quando si uniscono queste conoscenze, risulta evidente che sono malattie evitabili, se solo si affrontano tempestivamente le cause della contaminazione”.

La crisi ecologica è accelerata negli ultimi decenni, da quando il Messico ha firmato diversi trattati di libero commercio. A cominciare da quello con i vicini del Nord America. Da allora, grazie alle sue normative tolleranti, il Paese ha attratto da Stati Uniti, Europa e Giappone fabbriche che trattano sostanze pericolose, rifiuti tossici e plastiche da riciclare oppure impianti che producono reflui contaminanti. 

“Siamo diventati uno dei primi importatori di sostanze tossiche al mondo. Anche la chimica ha le sue maquilladoras” – Andrés Barreda Marin

“Siamo diventati uno dei primi importatori di sostanze tossiche al mondo -spiega l’economista-. Anche la chimica ha le sue maquilladoras dove si producono polimeri che successivamente saranno esportati in tutto il mondo”. Ma non solo: a Puebla è presente uno stabilimento Volkswagen circondato da 29 parchi industriali che producono componenti su disegno dell’impresa automobilistica. “La casa madre esternalizza a imprese che competono per garantire costi più bassi parte della produzione e, al tempo stesso, anche parte dell’inquinamento”, conclude Barreda.

Secondo Marcos Orellana c’è un “razzismo strutturale” nel movimento di sostanze tossiche su scala globale. Professore di diritto ambientale alla George Washington University e Relatore speciale delle Nazioni unite su inquinamento e diritti umani, Orellana era ospite all’incontro di Città del Messico. Ha descritto un “modello di esportazione di tecnologie contaminanti e di sostanze tossiche, dalla chimica alla siderurgia, dai Paesi industrializzati verso altri più permissivi”. Si chiede “perché gli Stati dell’Unione europea permettono che sostanze tossiche e fitofarmaci da loro vietati siano spediti altrove”. Secondo il relatore dell’Onu, questo dà la misura “del potere esercitato dagli interessi economici sugli Stati”.

1.090 diverse sostanze tossiche, composti chimici e metalli pesanti di origine industriale sono stati ritrovati nel río Santiago da uno studio dell’Istituto messicano per l’acqua (Imta). La scoperta risale ai primi anni Duemila, ma l’ente che aveva commissionato la ricerca l’ha tenuta in un cassetto per anni

Le comunità intervenute a Città del Messico parlano di effetti pesanti sulla salute. Diversi studi lo confermano, benché frammentari. Nella zona di El Salto uno studio dell’Istituto messicano per l’acqua (Imta) aveva rivelato già nei primi anni Duemila la presenza di 1.090 diverse sostanze tossiche, composti chimici e metalli pesanti di origine industriale nel río Santiago: ma l’ente che aveva commissionato la ricerca l’ha tenuta riservata per anni, mentre i cittadini si sentivano dire che non c’erano prove dell’inquinamento. 

“Che cosa produce malattie? -si chiede Yolanda Pica Granados, epidemiologa, autrice di quello studio-. Non solo le diossine, piombo, arsenico e le altre sostanze contaminanti. È il fatto che non c’è alcun controllo su ciò che l’industria lavora e produce”. Già, perché anche quando l’inquinamento è ormai conclamato, come sul fiume Santiago, mancano le norme e i mezzi per combatterlo.

L’acronimo Resa (Regioni di emergenza sanitaria e ambientale) è entrato ormai nel linguaggio comune, commenta Andrés Barreda: “Bisogna che sia formalmente riconosciuto dal governo federale, che lo Stato si assuma la responsabilità della bonifica e dei piani di salute pubblica sul modello dei Siti di interesse nazionale (Sin) in Italia”. Cita, ad esempio, il monitoraggio epidemiologico nei siti inquinati condotto nel nostro Paese dall’Istituto superiore di Sanità con il progetto Sentieri. Pietro Comba, già coordinatore di Sentieri, era ospite dell’incontro di Città del Messico insieme a Gianni Tognoni, epidemiologo e segretario del Tribunale permanente per i diritti dei popoli.

Intanto, le comunità presenti hanno fondato la “Rete nazionale delle zone di sacrificio e emergenza ambientale”. Hanno ottenuto un incontro con la Commissione nazionale per i diritti umani, strappato qualche impegno per una nuova legislazione sulle sostanze tossiche e per programmi di risanamento. Primi passi di una lunga marcia. 

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