Diritti / Opinioni
Gli aborti insicuri sono una minaccia per le donne
Scarso accesso alle cure, legislazione inadeguata e poca prevenzione: nel Sud del mondo vittime 5 milioni di persone ogni anno. “Il volo a pedali”, la rubrica di Luigi Montagnini
Katie veniva dagli Stati Uniti e, come spesso fanno i nordamericani, masticava velocemente le parole. Quando si rivolgeva a me, riuscivo a capire solo la fine della frase. Le prime volte che abbiamo lavorato insieme deve aver pensato che fossi idiota. Era la ginecologa del progetto di Monrovia, durante la mia prima missione con MSF. Quando mi disse che avremmo dovuto operare urgentemente una giovane donna con una peritonite conseguente a un unsafe abortion, io capii solo “abortion”, aborto. In italiano, il termine “aborto” indica l’interruzione della gravidanza sia quando avvenga spontaneamente, sia quando sia provocato volontariamente. In linguaggio medico preferiamo usare “aborto” per i casi di aborto spontaneo, mentre in caso di aborto deliberato usiamo la definizione legale “interruzione volontaria della gravidanza”, IVG.
25%. È la percentuale di gravidanze nel mondo che vengono interrotte volontariamente; due terzi delle donne che hanno una gravidanza non desiderata, nei Paesi del Sud del mondo, non utilizzano alcun metodo contraccettivo (fonte: WHO, 2016)
In inglese è l’opposto: “abortion” viene utilizzato per l’interruzione volontaria, mentre l’aborto spontaneo è detto “miscarriage”. Io, ai tempi, non conoscevo questa differenza linguistica. Ancora meno capivo l’espressione “unsafe”. La giovane donna si chiamava Emily. Era rimasta incinta e aveva deciso di abortire. Non era importante sapere perché avesse deciso di abortire. Per noi contava solo il fatto che per interrompere la sua gravidanza si fosse rivolta alla persona sbagliata. Aveva assunto per tre giorni consecutivi un decotto di erbe preparato da una zia, che l’aveva poi accompagnata da un’anziana donna del villaggio: fu quest’ultima che le strappò il feto introducendo nella vagina un osso di pollo. L’osso aveva perforato l’utero e l’intestino, provocandole un’infezione addominale gravissima.
Katie la salvò, anche se dovette ricucirle un pezzo di intestino e toglierle l’utero: Emily non avrebbe più potuto avere figli, ma almeno era viva. Da quel momento mi fu chiaro che cosa significasse “unsafe” e per la prima volta, in maniera drammatica, capii che l’aborto volontario, prima che una questione etica, è un problema di salute delle donne.
I motivi per cui una donna non può abortire in maniera sicura (“safe”), e cioè con il supporto di personale sanitario qualificato in ambienti idonei, possono essere molteplici: legislazioni restrittive, scarsa conoscenza dei servizi disponibili o, peggio, mancanza di servizi idonei, costi elevati per accedere alla prestazione, procedure burocratiche volutamente complesse e lunghe o paura del giudizio sociale, solo per citare i più comuni. A tutto questo si aggiunge la mancanza di conoscenza di metodi contraccettivi sicuri e l’assenza di strutture dove la donna possa rivolgersi per ottenere informazioni e supporto per prevenire gravidanze non desiderate.
Nel mondo, ogni anno, avvengono 56 milioni di interruzioni di gravidanza, delle quali 22 milioni sono “unsafe abortion”. Come Emily, 5 milioni di donne nel Sud del mondo vengono ricoverate per le complicanze di un aborto non sicuro, tra le quali infezioni ed emorragie. Altre 3 milioni non ricevono cure per le complicanze di un aborto. Molte sviluppano danni irreversibili, come infertilità o incontinenza urinaria. Le tecniche cui si sottopongono per interrompere la gravidanza includono l’assunzione di sostanze tossiche, l’introduzione in vagina o nell’utero di oggetti appuntiti o traumi diretti sul basso addome. 47.000 donne muoiono ogni anno per essersi sottoposte a un aborto non sicuro: rappresentano la quota morti materne (il 18%) assolutamente prevenibile.
Mancanza di educazione, scarso accesso alle cure, legislazioni inadeguate, assenza di programmi di prevenzione: a pagare, ancora una volta, sono le donne.
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