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Cultura e scienza / Intervista

Giorgio Boatti. Vi racconto la “follia” di mio fratello

Gin Angri / Buena Vista Photo

Nel libro “Abbassa il cielo e scendi” il giornalista racconta la vita trascorsa al fianco di Bruno, malato di schizofrenia. Le fatiche familiari si intrecciano all’evolversi del modello di cura: dal sogno di Basaglia all’abbandono di oggi

Tratto da Altreconomia 256 — Febbraio 2023

“Se la mia vita ha avuto un senso, è anche nell’essermi occupato di quella di Bruno, mio fratello, malato di schizofrenia. Per molto tempo, però, di lui mi sono vergognato. Finché nasconderemo e non sapremo condividere il tema della sventura che colpisce alcune vite, resteremo comunità zoppicanti, fragili, incapaci di far fronte alle sfide del mondo”, dice Giorgio Boatti. Giornalista, ex militante politico nel Partito comunista e poi in Lotta continua, ha scritto alcuni saggi fondamentali per comprendere la storia e il presente del nostro Paese: su tutti “Piazza Fontana” il libro sulla strage del 12 dicembre 1969; “Preferirei di no, le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini”; “Un Paese ben coltivato, reportage dall’Italia che torna alla terra”. A 75 anni ha scritto il suo primo romanzo: “Abbassa il cielo e scendi” (Mondadori, 2022) è anche una storia autobiografica, in cui racconta quasi settant’anni di vita a fianco del fratello.

Leggendo questo libro, che è il racconto della vostra vita, si ha come l’impressione che resti il punto di vista del giornalista.
GB Un’amica fotografa, Marcella Milani, aveva realizzato un reportage sul vecchio ospedale psichiatrico di Voghera (“Mente Captus”, 2017), che ospitava migliaia di pazienti fino all’entrata in vigore della legge Basaglia: mi ha chiesto di scrivere un testo introduttivo al suo lavoro, sapendo che io conoscevo quella realtà dal momento che aveva ospitato il primo ricovero di mio fratello. Un editor di Mondadori lo ha letto e ha bussato alla mia porta, chiedendo se avessi mai pensato di raccontare questa vicenda. E io, che ci pensavo da una vita, ho accettato di provare a raccontarmi, di scrivere un romanzo fatto di una storia tutta vera: quella di mio fratello che era morto da poco, all’inizio del 2020. Mi sono dato un regola: dovevo far sì che intorno alla vicenda di una persona molto particolare, geniale e sventurata -questo è il caso di mio fratello- si riuscisse a comprendere il passaggio dal sé al noi, che dal racconto di una singola vita fosse possibile abbracciare i contesti, familiari, sociali, temporali, che questa via via attraversava.

Ciò che attraversate, insieme, è il mutamento della cura del disagio psichiatrico.
GB Le prime esperienze di Bruno furono brutali, con elettroshock e un centinaio di coma insulinici che senz’altro hanno inciso sulla sua condizione. Poi arrivò la riforma (la legge 180 del 1978, la cosiddetta legge Basaglia, ndr), gli psicofarmaci e mutamenti che incisero molto sulla vita della famiglia intorno a lui. Ci furono anche momenti, che ricordo con struggente nostalgia, di tregua: c’erano giovani medici che sperimentavano nuovi modi in spazi diversi. Credo che per raccontare la follia non sia sufficiente entrare nella mente del malato ma anche negli spazi in cui la follia abita, ad esempio quello interno alla casa di una famiglia, oltre che soffermarsi sul mutamento drastico e incredibile tra il vecchio ospedale, con le sue mura istituzionali, uguali alle caserme e ai seminari, e il nuovo. Un passaggio che mi commosse: gli spazi finalmente accoglievano; queste vite sventurate trovavano una sosta, una tregua nella battaglia che era la vita quotidiana.

In “Abbassa il cielo e scendi”, però, l’accento è anche sulla fine di questo modello.
GB Dal mio osservatorio ho potuto cogliere in presa diretta la ritirata delle cura, della medicina preventiva e dell’assistenza psichiatrica dal territorio. Prima sembrava arrivare nelle case, nei luoghi di lavoro; c’era, ascoltava, era presente, perché aver cura è anzitutto esserci. Poi c’è stata la ritirata, per arrivare al disastro degli ultimi vent’anni, almeno in Lombardia, dove è una specie di cittadella assediata da un numero crescente di pazienti, da prestazioni che si moltiplicano sempre di più, con visite stereotipate, erogazione di psicofarmaci, difficoltà a raggiungere il medico e l’infermiere, mondi -il centro psico-sociale e il medico di base- che non si parlano, la famiglia che deve fare un’attività costante di collegamento, in un contesto in cui ogni giorno sei spiazzato, perché la follia non è pianificabile.

“Finché nasconderemo e non sapremo condividere il tema della sventura che colpisce alcune vite, resteremo comunità zoppicanti, fragili, incapaci di far fronte alle sfide del mondo”

Negli ultimi anni, invece, accompagni Bruno in giro per le residenze sanitarie assistite (Rsa), che sarebbero diventate tristemente famose da lì a poco durante le prime fasi dell’emergenza Covid-19.
GB Le fasi finali di queste vite difficili, anche per chi le deve accudire, sono sempre più ardue: l’ultimo periodo è così quello delle esplorazioni affannose per capire dove andare a parare, in una Lombardia dove le Rsa sono proliferate in modo esponenziale, dove alcune operano in maniera spesso accettabile, altre in modo estremamente discutibile. Il cuore del problema è però un altro e cioè che la comunità espelle la vecchiaia, con il suo disagio, che da sempre fa parte della società. È una rottura del patto intergenerazionale di vicinanza e prossimità tra chi è vecchio e la vita che sboccia, che è fondamentale. Per l’anziano, innanzitutto, perché avere accanto un bambino che cresce e impara a stare nella vita è un ponte di speranza, lo aiuta a percepire con mano che la vita continuerà. Le Rsa sono un nuovo spazio concentrazionale, inquietante. Se a questo quadro aggiungiamo il disagio psichico, le polipatologie di molti anziani, diventa una sfida incredibile, che non è raccontata né affrontata per quel che è.

Giorgio Boatti, nato a Zinasco (PV) nel 1948 è giornalista e scrittore. Ex militante politico nel Partito comunista e poi in Lotta continua, è autore di alcuni saggi fondamentali per comprendere la storia e il presente del nostro Paese

 

Nel libro racconti alcuni traumi vissuti da tuo fratello che potrebbero aver portato all’insorgere della malattia. Dato che fanno anche riferimento alla guerra, a me ha fatto pensare alla condizioni di disagio psichico dei migranti e richiedenti asilo che arrivano in Italia lungo le diverse rotte di migrazione.
GB
In famiglia si raccontava di un episodio, relativo alla Seconda guerra mondiale: in campagna, ospitavamo tre partigiani. Dopo una “spiata” arrivarono i tedeschi e la Brigata nera, che brutalizzarono mia mamma, picchiarono mio nonno e puntarono un’arma al viso di mio fratello. Nella fase finale della malattia, Bruno ormai anziano riviveva questo momento. Non abbiamo ancora capito quale sia l’origine della schizofrenia, in che parte sia genetica e in quale legata a traumi e mutamenti che accadono nel corso della vita. Lui è stato segnato senz’altro anche dalla decisione di andare in seminario, altra esperienza non irrilevante dal punto di vista della durezza, erano gli anni Cinquanta, e dal servizio militare: è finito nella Terza Armata, il luogo in cui pianificavano un’eventuale futura Terza guerra mondiale, che doveva creare disinformazione rispetto al pericolo comunista.

A decenni di distanza, Bruno vedeva nei capannoni potenziali magazzini dov’erano stoccati missili e armamenti, aveva una memoria prodigiosa, ripercorreva gli elenchi infiniti che aveva redatto per questa armata fantasma. Questi traumi li ho vissuti nuovamente quando a casa mia, nel parco del Ticino, ho ospitato un ragazzo che veniva dal Congo, che ci ha messo otto anni per arrivare in Europa: quando vedeva sulle ciclabili le persone fare jogging, Tony si chiedeva da cosa stessero scappando, non riusciva a capire. Viviamo su mondi sospesi: il non detto e il non ascoltato di queste vite che arrivano, che contengono dolore, sofferenza, disagio mentale, è riposto nei sotterranei delle nostre comunità. Ho l’impressione che stiamo camminando su qualcosa di estremamente rimosso, che salterà fuori. Sono fiumi carsici di dolore ed esperienza che prima o poi verranno alla luce: sarebbe opportuno li si guardasse insieme tutti.

Questa esigenza di rimozione ha, in parte, riguardato anche te. Ti sai dare una spiegazione del perché?
GB Come racconto nel libro, mi vergognavo profondamente. Pur avendo gli strumenti culturali e da ex militante politico per farne qualcosa che non fosse solo mio, mi sono arroccato in questo dolore e problema. Pur adempiendo al compito di occuparmi di mio fratello in modo quotidiano, non ho mai condiviso ciò che vivevo con chi mi stava accanto, non solo nel lavoro culturale ma anche con le mie compagne.
Sapevano che avevo questo “problema”, ma non ho mai presentato Bruno ai miei amici, mi vergognavo della follia di mio fratello, degli spiazzamenti causati dall’avere a che fare con lui.
Bruno mi ha scritto decine di lettere in cui mi diceva di aiutarlo nell’eutanasia: mi facevano venire pensieri atroci sulla morte misericordiosa che i nazisti immaginavano per i loro malati psichiatrici, il progetto che ha dato il via all’Olocausto verso chi non è degno di stare al mondo. E poi ti rendi conto che una società degna solo dei perfetti è una cosa orribile, inaccettabile.

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