Economia / Approfondimento
Gas, miniere, oppio. Perché i Talebani non potranno fare da soli
Il nuovo governo dell’Afghanistan dovrà fare i conti con una situazione critica che deriva dalla struttura del Paese e dal venire meno degli aiuti. Per finanziare la propria sopravvivenza, al di là dei sostegni di Paesi “amici” come Russia e Cina, punterà sulle ingenti riserve di terre rare pari a oltre 3.000 miliardi di dollari. L’analisi di Alessandro Volpi
L’economia dell’Afghanistan è estremamente povera. Possiede un Prodotto interno lordo che negli ultimi anni ha oscillato fra i 17 e i 20 miliardi di dollari l’anno, una capacità di generare reddito e ricchezza assai limitata a fronte di una popolazione superiore ai 38 milioni di abitanti, in pratica inferiore a quella di molte Regioni italiane. Anche se questo dato viene tradotto in termini di parità di potere d’acquisto, per renderlo più reale, si arriva a una ben poco incoraggiante stima di circa 89 miliardi. Un elemento che può correggere, almeno in parte, queste valutazioni può derivare dalla necessaria constatazione della natura informale, e per molti versi illegale, dell’economia afghana; una dimensione che non è facilmente misurabile proprio da uno strumento come il Pil.
Il 30% della popolazione del Paese ha stabilmente carattere nomade e, come noto, la coltivazione dell’oppio, insieme ai tanti balzelli posti dai vari clan al passaggio di merci sulle rotte stradali interne, costituiscono le fonti d’introito primarie per varie zone afghane. Tra il formale e l’informale si è sviluppato anche il settore del talco, di cui l’Afghanistan è esportatore, e quello delle pietre preziose, a partire dagli smeraldi.
Sono praticabili quindi stime meno pessimistiche sulle condizioni di quei territori, ma rimane, comunque, evidentissima la preponderanza di uno stato di indigenza diffusa che non è stata ridotta in maniera rilevante e sostanziale dall’intervento dell’amministrazione “internazionale” né durante la presidenza Karzai né da quella Ghani. In realtà, la presenza estera ha comportato un significativo impegno economico da parte di Stati Uniti ed Europa, che hanno riversato ogni anno in Afghanistan a partire dal 2001 “aiuti” per circa 10 miliardi l’anno, di cui poco meno della metà destinati a spese militari e il resto per pagare gli stipendi dei funzionari di una costituenda macchina amministrativa. Nell’insieme simili aiuti hanno fatto sì che oltre il 55% del Pil afghano derivasse dal settore dei servizi.
Si è trattato però di uno sforzo che ha mancato il duplice obiettivo di costruire uno Stato “nazionale” e di migliorare in modo avvertibile le condizioni di vita della maggioranza degli afghani. Il fallimento del primo obiettivo è dipeso, in larga misura, dalla composizione geografica e anagrafica della popolazione; l’Afghanistan è una costruzione artificiale degli inglesi e risulta il portato, forzato, della convivenza di numerosi clan, a cui è del tutto estranea l’idea stessa di Stato nazione così come intesa da ampi spezzoni del pensiero occidentale. Inoltre la popolazione afghana è per oltre il 60% composta da giovani con meno di 29 anni mentre la popolazione con più di 60 anni non arriva al 14%; immaginare di realizzare un qualche tipo di Stato “sociale” sul modello occidentale appare estremamente complicato.
In un panorama come questo, gli aiuti, pur ingenti, si sono tradotti in una vasta messe di prebende, di “ricompense” pagate a quella parte della popolazione afghana che aveva deciso di accettarli senza che tutto ciò si trasformasse appunto in un processo di nation building; non è difficile capire allora perché sia l’esercito afghano, creato dall’amministrazione internazionale, sia quel simulacro di amministrazione pubblica tenuta faticosamente in piedi per almeno un decennio si siano dissolti di fronte alla ricomparsa massiccia dei Talebani. Peraltro gli aiuti internazionali non hanno in alcun modo cercato di favorire lo sviluppo di un’economia agricola in grado di sostituire, sia pur in parte, la dominante coltivazione dell’oppio che ha facilitato una significativa polarizzazione della ricchezza nelle mani di pochi capi clan. Il venir meno, assai probabile, di questo insieme di aiuti internazionali non migliorerà la situazione del Paese, che rischia di essere aggravata da alcuni altri fattori tra loro legati.
L’Afghanistan dispone di una Banca centrale alla cui presidenza i Talebani hanno sostituito il “filo-occidentale” Ahmaty con l’ortodosso Idris, ma le riserve dell’istituto, pari a circa 9 miliardi di dollari, si trovano quasi per intero presso la Federal Reserve statunitense e non sono quindi disponibili per il nuovo governo. Una situazione simile, insieme alla grande incertezza, ha indotto le banche estere che operano nel Paese a bloccare i conti correnti e i bancomat a fronte di un tentativo immediato da parte di quel 10% di popolazione in possesso di un conto di ritirare i propri risparmi. Inevitabilmente tutto ciò ha causato una rapidissima svalutazione dell’Afghani, la moneta locale che era di fatto “dollarizzata”, e una altrettanto repentina inflazione dei prezzi dei beni primari.
I Talebani dovranno fare necessariamente i conti con questa situazione critica che deriva dalla struttura del Paese e dal venire meno degli aiuti; ed è molto probabile che siano consapevoli di non poter riprodurre il fallimentare schema seguito dalla metà degli anni Novanta al 2001 e neppure di mantenere in vita un’economia del tutto informale, abbinando la rigida applicazione della sharia alla conservazione delle tradizionali pratiche di depredazione delle varie popolazioni locali attraverso forme di tassazione vessatoria.
In altre parole dovranno trovare risorse utili per finanziare la propria sopravvivenza, al di là dei sostegni di Paesi o gruppi “amici”, e per alimentare le basi di un consenso che ha bisogno, per essere tale, di un concreto miglioramento delle condizioni di vita, ad oggi ancora del tutto assente. Le strade che potranno seguire sono diverse.
La prima, forse più scontata, è quella di intensificare la coltivazione dell’oppio -che già oggi rende l’Afghanistan il primo produttore mondiale con ben oltre l’80% del totale mondiale- distribuita su 224mila ettari, presenti in quasi tutte le 32 province del Paese. L’azione potrebbe essere duplice: trasformare il settore in una produzione regolata dallo Stato, sottraendola alla perdurante dimensione informale, e incidere sulla produzione stessa in maniera da alzare, quando opportuno, i prezzi dell’eroina. Una soluzione del genere, che è probabile i Talebani intraprendano almeno in parte, porta con sé tuttavia il pericolo per l’Afghanistan di diventare un narco-Stato, con tutti i conseguenti rischi di costanti infiltrazioni delle grandi organizzazioni del traffico di stupefacenti, difficili da controllare persino nel caso in cui i talebani decidessero di fare accordi vincolanti con loro.
La seconda opzione, seguita dagli stessi Talebani per finanziarsi negli anni precedenti, è quella di introdurre, questa volta per via normativa, un sistema di prelievi fiscali sulle merci in transito per il Paese, approfittando della centralità di diversi itinerari che passano per l’Afghanistan. Si tratta di una soluzione che sconta però vari limiti costituiti, in primis, dalla possibilità per gli Stati limitrofi, interessati da simili transiti, Iran e Pakistan in particolare, di scegliere altri percorsi, con un deciso peggioramento delle loro relazioni con l’Afghanistan: una condizione che i Talebani non possono permettersi, soprattutto nel caso del Pakistan.
La terza strada sembra la più promettente ed è costituita dalla grande quantità di riserve minerarie e di materie prime di cui l’Afghanistan pare essere molto ricco.
Fin dai tempi dell’occupazione sovietica, il Cremlino aveva avviato una serie di indagini alla ricerca di tali riserve producendo una prima serie di studi da cui emergeva un quadro decisamente promettente. Tali studi furono ripresi dall’amministrazione americana, che concepì, nel 2004, un ufficio federale specificatamente dedicato, e si tradussero in una valutazione ancora più ottimistica. Sembra infatti che in territorio afghano esistano riserve per circa 3.000 miliardi di dollari tra litio, terre rare, cobalto, rame, ferro e altri materiali di grande rilievo. Fino ad oggi, simili risorse non hanno trovato un qualche tipo di sfruttamento per l’instabilità politica e militare dell’area, per le difficoltà di natura logistica degli interventi, che hanno bisogno di tanta acqua -scarsa in Afghanistan- e di infrastrutture efficienti, e, soprattutto, perché il costo complessivo degli interventi necessari allo sfruttamento non era giustificato da eventuali profitti.
Ora la situazione appare però profondamente cambiata perché proprio il litio, le terre rare, il rame sono diventati preziosissimi per la trasformazione in chiave digitale e green delle principali economie del Pianeta e dunque garantiscono rendimenti elevatissimi agli investimenti in tali settori.
Inoltre, si tratta di materie prime che hanno acquisito, alla luce di ciò, un cruciale valore strategico perché lo Stato capace di ottenerne il monopolio risulterà nella posizione di condizionare intere filiere produttive. In quest’ottica, è decisamente probabile che i Talebani intensificheranno l’azione, in parte già avviata dalla presidenza Ghani, per stabilire contatti con Paesi interessati allo sfruttamento in questione, attraverso la stipula di succosi contratti di concessione pluriennale; la Cina –come abbiamo già scritto– sembra il partner ideale a riguardo per la sua enorme disponibilità finanziaria e per la scarsissima attenzione al tema dei diritti e delle libertà.
Nelle trattative con Pechino i Talebani potranno mettere sul tavolo un ulteriore elemento favorevole, costituito dalla rescissione dei propri legami con il gruppo turcofono di religione islamica degli uiguri, che nel Nord-Ovest del Cina rappresentano un fattore di forte tensione e che nel tempo hanno beneficiato dell’appoggio talebano.
Litio, terre rare, rame e la fine del sostegno agli uiguri costituiscono, in estrema sintesi, un allettante materiale per una importante e duratura intesa fra il “nuovo” Afghanistan e la superpotenza cinese.
I Talebani hanno, poi, un’altra carta da giocare rappresenta dalla questione dei gasdotti. Dal 2015 ha preso corpo il progetto della Trans Afghanistan Pipeline, il gasdotto che dovrebbe collegare il Turkmenistan, in possesso di enormi riserve di gas, con l’India, passando per Afghanistan e Pakistan, e che è stato finanziato dalla Asian Development Bank. Si tratta di un grande progetto, fino ad oggi di fatto bloccato dall’instabilità proprio dei territori afghani, che costituirebbe uno snodo decisivo nel “Grande gioco” dell’energia mondiale. Collegare il Turkmenistan con l’Oceano indiano vorrebbe dire immettere sul mercato del gas importanti quantitativi, destinati ad alleggerire, in parte, il fabbisogno indiano e cinese, allargando, peraltro, la rete di pipeline provenienti dalla Turchia, dal Caspio e dal Mar Nero.
In pratica, il transito del gasdotto in Afghanistan sarebbe il tassello di un sistema più complessivo di gasdotti, a cui sono legati a vario titoli pivot centrali come Turchia, Russia, Cina e India e che, sotto molti aspetti, metterebbe in difficoltà gli Stati Uniti, decisamente interessati, in questa fase, ad un prezzo alto dell’energia. La medesima rete dei gasdotti sarebbe, inoltre, collegata anche a un potenziamento della nuova “via della seta”, costruita dalla Cina che, attualmente, transita per le repubbliche ex sovietiche a nord dell’Afghanistan ma che, con opportuni accordi, potrebbe entrare nel territorio dominato dai talebani, mettendo insieme energia, materie prime, beni e persino servizi.
Un’ultima considerazione riguarda proprio gli Stati Uniti. Le motivazioni del loro ritiro dall’Afghanistan sono state diverse e non è questa la sede per affrontarle. Tuttavia è possibile fare solo un rapido riferimento al fatto che, rispetto al futuro economico del Paese dei Talebani, la presidenza Biden abbia “scommesso” sia sulla loro incapacità di ottenere un vero controllo del territorio sia sull’altrettanto marcata debolezza nel trattare con investitori internazionali, pubblici e privati.
Se un simile caos si instaurasse, allora è molto probabile che la percezione diffusa nei mercati mondiali sarebbe quella di un’area destinata a subire contraccolpi estesi ben oltre lo stesso Afghanistan, fino a comprendere Turkmenistan, Tagikistan, Kazakistan; in pratica sarebbe investita dall’incertezza una vasta zona della produzione di energia, i cui prezzi saliranno molto per effetto delle gigantesche speculazioni rialziste, indotte appunto dalla percezione del caos. Di ciò, l’economia a stelle e strisce trarrebbe un doppio giovamento. In primo luogo ne beneficerebbe la produzione statunitense di shale gas, che, per essere competitivo, ha bisogno di alti prezzi dell’energia, tali da giustificare i costosi investimenti in un simile settore. In secondo luogo, un rialzo dei prezzi dell’energia significherebbe un indebolimento del dollaro, in questo momento molto opportuno per le esportazioni americane che rischiano di essere danneggiate dal prossimo aumento dei tassi d’interesse americani, motivato dalla necessità di evitare riprese inflazionistiche.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.
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