Diritti
G8, in tribunale quando occorre
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Dopo anni di prolungata assenza dalle aule giudiziarie, due dirigenti di Polizia si ripresentano chiedendo di scontare le pene ai servizi sociali. Mentre le vittime della Diaz ricorrono in Europa _ _ _
Intorno alla metà del mese di aprile, due fatti coincidenti hanno mostrato quanto le vicende di Genova G8 siano tutt’altro che un capitolo chiuso per il nostro Paese. A Genova al Tribunale di sorveglianza è avvenuto un fatto insolito: Francesco Gratteri (nella foto), Gilberto Caldarozzi e altri (ex) dirigenti della Polizia di Stato si sono presentati fisicamente davanti a un giudice. Negli stessi giorni è stato recapitato alla Corte europea per i diritti dell’Uomo un ricorso di alcune delle vittime dell’irruzione alla Diaz. Questi fatti, se messi a confronto, mostrano due concezioni opposte della giustizia, del diritto e dell’etica pubblica.
Negli anni scorsi Gratteri, Caldarozzi e gli altri dirigenti di polizia hanno disertato tutte le udienze del processo Diaz nel quale erano imputati, respingendo anche l’invito a rispondere alle domande dei pubblici ministeri (tranne Vincenzo Canterini e Michelangelo Fournier). Il messaggio, in quella fase, era chiaro: gli imputati, in particolare gli altissimi dirigenti, non si sentivano realmente coinvolti nel processo, che non doveva interferire con i loro compiti istituzionali ai vertici della polizia, dov’erano stati confermati nonostante l’inchiesta e il rinvio a giudizio. Un atteggiamento evidentemente condiviso sia dai superiori (cioè i capi della polizia Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli), sia dai ministri che si sono succeduti fra 2005 e 2012 (Pisanu, Amato, Maroni, Cancellieri).
Diverso l’atteggiamento di fronte al Tribunale di sorveglianza. Stavolta tutti presenti e pronti a spiegare al giudice le proprie ragioni. Il tema, ovviamente, è diverso. Durante il processo Diaz i magistrati avrebbero chiesto spiegazioni dei fatti, il mese scorso si trattava di mostrarsi meritevoli di accedere ai servizi sociali, anziché scontare in carcere o ai domiciliari il residuo della pena inflitta in via definitiva nel luglio scorso dalla Cassazione. Un residuo di pena che non supera i dodici mesi, per effetto dello “sconto” di tre anni disposto dalla legge sull’indulto del 2006. Gratteri e gli altri hanno chiesto di scontare la pena nelle stesse associazioni in cui hanno cominciato quest’anno un servizio volontario. Si tratta, per i maggiori dirigenti, di organizzazioni dell’antimafia sociale. L’accoglienza benevola riservata da queste associazioni ai dirigenti condannati per la Diaz non è priva di ambiguità che meriterebbero un chiarimento, ma per questo rimando a un mio articolo su altreconomia.it. Il Tribunale di sorveglianza ha rinviato una decisione a dicembre, invitando nel frattempo Gratteri e gli altri a valutare se non sia opportuno esprimere pubblicamente rincrescimento per le proprie azioni. Una richiesta che nasce da una constatazione: nessuno dei condannati si è mai assunto la responsabilità di quanto accaduto alla Diaz; nessuno, inoltre, ha mai collaborato con la magistratura nella ricerca della verità (si pensi al caso di Mark Covell, quasi ucciso all’esterno della scuola Diaz davanti a decine di agenti e dirigenti).
Alcuni dei malcapitati cittadini finiti nel vortice di violenze e di falsi alla scuola Diaz, patrocinati da Valerio Onida e altri avvocati, si sono rivolti alla Corte europea mettendo in fila una serie di fatti che equivalgono ad altrettante violazioni dei princìpi e delle regole che caratterizzano in Europa la tutela dei diritti umani: la violazione del divieto di tortura e trattamento inumano e degradante; l’arbitrarietà degli arresti; la mancata identificazione degli agenti autori delle violenze; l’ineffettività delle pene inflitte ai condannati causa prescrizione e indulto; la sproporzionata reazione dell’ordinamento rispetto ai reati compiuti da alcuni manifestanti (fino a 14 anni per devastazione e saccheggio); la mancanza nell’ordinamento italiano di una legge sulla tortura e di forme strutturali di prevenzione degli abusi. I ricorrenti scrivono che “nonostante il formale riconoscimento da parte dello Stato italiano delle gravi responsabilità a suoi agenti per i fatti in esame, i ricorrenti devono tuttora considerarsi ‘vittime’ delle violazioni subite ai sensi dell’art. 34 Cedu, non essendo intervenuta -né potendo intervenire in futuro- un’effettiva punizione dei soggetti riconosciuti responsabili”.
Dopo anni di silenzio di fronte a richieste continue di informazioni, il ministero dell’Interno ha finalmente informato il Tribunale di sorveglianza delle azioni disciplinari avviate nei confronti dei condannati nel processo Diaz: nessun procedimento sui funzionari che hanno beneficiato della prescrizione; azione disciplinare per comportamenti colposi a carico degli altri, che però la giustizia ha riconosciuto colpevoli di condotte dolose. Se non fossimo in Italia sarebbe uno scandalo nello scandalo. —