Esteri / Intervista
Il “futuro sempre più oscuro” per i Territori palestinesi. Dove l’occupazione è divenuta annessione
Intervista a Michael Lynk, Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967. “In questi 52 anni -spiega ad Altreconomia- Israele non ha dimostrato alcuna volontà di adempiere ai suoi obblighi internazionali e di accettare le risoluzioni Onu che gli impongono di fermare gli insediamenti illegali e di porre fine all’occupazione”
“Costruire insediamenti civili in territorio occupato è illegale, così come l’annessione del territorio. La comunità internazionale si è pronunciata contro gli insediamenti israeliani, ma non ha imposto conseguenze effettive per questa violazione del diritto internazionale”. Michael Lynk, professore di Legge presso la Western University dell’Ontario, da tre anni e mezzo è il Relatore speciale Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967. La sua voce è ferma, i suoi report all’Assemblea generale e al Consiglio per i diritti umani durissimi. È preoccupato per il “futuro sempre più oscuro” che si allunga sulla Palestina. E spiega perché.
Professor Lynk: nell’introduzione della sua ultima relazione alle Nazioni Unite, ha richiamato l’attenzione sul fatto che non le sarebbe stato consentito l’ingresso ai Territori palestinesi occupati. Perché?
ML Ho assunto l’incarico di Relatore speciale il primo maggio 2016 e tutte le volte che ho chiesto al governo di Israele -in forma scritta- il permesso di entrare nei Territori occupati per poter svolgere i miei doveri, come previsto dal mandato Onu, ho ricevuto in cambio soltanto il silenzio. È una sorte che non è toccata solo a me ma anche a chi mi ha preceduto: nemmeno a loro è stato accordato il permesso.
Israele considera l’operato del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di parte, fazioso e in suo sfavore: in realtà il mio mandato non è “contro Israele”, non ne ho la giurisdizione. Mi occupo della condotta dell’occupazione israeliana a Gaza, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania che sono tutti considerati Territori occupati. Numerose autorità, tra cui l’Alto commissario per i diritti umani, hanno ripetutamente chiesto a Israele di consentirmi l’accesso per svolgere indagini in condizioni non ostruzionistiche, così come è stato chiesto ad altri Paesi in cui l’ingresso dei Relatori speciali viene rifiutato: penso al Myanmar o la Corea del Nord.
Durante la recente campagna elettorale, il primo ministro uscente Benjamin Netanyahu ha promesso in caso di rielezione l’annessione della Valle del Giordano. Lei ha detto che questo annuncio ha posto fine alla “patina” di un’occupazione temporanea. E che Israele non ha mostrato alcuna intenzione di rispettare i suoi obblighi internazionali per porre fine all’insediamento illegale che dura dal 1967.
ML Sono trascorsi 52 anni e l’occupazione è ormai diventata indistinguibile rispetto all’annessione. Secondo il diritto internazionale, le occupazioni dovrebbero essere temporanee, entro un periodo compreso tra cinque e dieci anni. Per quanto tempo si è protratta l’occupazione americana del Giappone dopo la Seconda guerra mondiale? Circa 10 anni. Per quanto tempo gli Alleati hanno occupato la Germania Ovest dopo la Seconda guerra mondiale? Circa 10 anni. Quanto è durata l’occupazione dell’Iraq da parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti nei primi anni Duemila? Se guardiamo invece al meccanismo di occupazione sul campo manifestatosi nel nostro caso contiamo 240 insediamenti illegali nei Territori, 650.000 coloni israeliani, ripetute proclamazioni di sovranità da parte di molti leader politici in Israele su tutta la Cisgiordania o in gran parte della regione, oltre a Gerusalemme Est. Israele non ha dunque alcuna intenzione di negoziare un’autentica soluzione per due Stati e di riconsegnare i propri spazi di “conquista”. All’indomani della Seconda guerra mondiale, a partire dalla Carta delle Nazioni Unite del 1945, era chiaro però che “conquista” e “annessione” non avrebbero avuto più posto nel mondo moderno. Ciò che stiamo osservando riguardo all’annessione israeliana di Gerusalemme Est, delle alture siriane del Golan, degli annunci di annessione di parti o di tutta la Cisgiordania, non è altro che il frutto della considerazione che Israele ha di sé: al di sopra delle regole internazionali in materia di occupazione e di rispetto dei diritti umani. Il mondo moderno a oggi ha sviluppato numerose regole ma per quanto riguarda i diritti umani e il diritto umanitario, mancano del tutto accountability (responsabilità) e la loro ferma applicazione.
Nella sua ultima dichiarazione sulla Valle del Giordano ha fatto appello alla comunità internazionale. Che tipo di reazione c’è stata?
ML Ci sono state delle dichiarazioni di condanna a riguardo e delle prese di posizione significative, ad esempio da parte dell’Unione europea. Ma non ho sentito alcun riferimento a sanzioni concrete contro Israele. Le critiche senza conseguenze non possono più essere tollerate anche perché esistono numerosi precedenti storici in forza dei quali è possibile imporre sanzioni e assicurarsi che la parte responsabile di un’occupazione “indeterminata” ne paghi i costi. Israele ha potuto condurre invece un’occupazione senza conseguenze e illegale.
A fine luglio di quest’anno le autorità israeliane hanno demolito diverse case di palestinesi in un sobborgo di Gerusalemme Est, Sur Baher, con il pretesto delle “ragioni di sicurezza”. Lei ha sottolineato ancora una volta la natura illegale di questo comportamento, definendolo un “crimine di guerra”. Qual è la situazione?
ML È interessante notare come l’area in cui sono state demolite le case è stata considerata parte dell'”area A”, che in teoria sarebbe sotto l’unica giurisdizione, civile e militare, dell’Autorità nazionale palestinese. E l’Autorità aveva concesso i permessi di costruzione e le licenze di abitabilità delle case a quelle famiglie palestinesi. La ragione per cui Israele le ha demolite risiederebbe nel fatto che erano troppo vicine al muro di separazione. Tuttavia, se si osserva il percorso del muro, in particolare dove attraversa i sobborghi palestinesi di Gerusalemme, o altre comunità della Cisgiordania, si ritrovano molte case “al di sopra” dello stesso. E queste non sono state certamente demolite. Se Israele fosse stato e fosse oggi coerente, avremmo contato centinaia, forse migliaia, di unità abitative demolite. È con questa incoerenza che si è trovata la giustificazione della demolizione delle case a Sur Baher: regole alquanto arbitrarie che vengono promulgate dalle autorità di occupazione militare israeliane a scapito dei diritti alla casa e all’autodeterminazione dei palestinesi.
6.209: le strutture demolite dalle autorità israeliane nella West Bank dal 2009 al primo ottobre 2019. 9.517 le persone sfollate (fonte: United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), 2019)
Che cosa accade invece nella Striscia di Gaza?
ML Nonostante il ritiro dalla Striscia, l’esercito di Tel Aviv continua a gestire l’occupazione a distanza. Niente e nessuno entra o esce dalla Striscia di Gaza senza il permesso e il controllo israeliano. È mantenuto a oggi un blocco pressoché totale -con la cooperazione dell’Egitto- che riguarda terra, mare e spazio aereo di Gaza e questo ha conseguenze sociali ed economiche significative per la popolazione. Il Pil continua a crollare. L’accesso all’energia elettrica è a singhiozzo e l’approvvigionamento all’acqua potabile è praticamente impossibile a causa della contaminazione della falda acquifera. L’economia è piegata: il tasso di disoccupazione è straordinariamente elevato (52%), in particolare tra i giovani. Il tutto a fronte di un livello di istruzione relativamente elevato. Nel 2012 e di nuovo nel 2017, le Nazioni Unite hanno condotto indagini estremamente approfondite sulle condizioni sociali, economiche e di vita a Gaza. La situazione idrica di Gaza è una crisi che rasenta la catastrofe umanitaria. Secondo l’Onu, oltre il 96% delle falde acquifere costiere -unica fonte di acqua di Gaza- sono divenute inadatte al consumo umano, e senza un intervento radicale, entro il 2020 la falda acquifera verrebbe irreversibilmente danneggiata.
4.951: i cittadini palestinesi residenti nella Striscia di Gaza uccisi in situazioni di conflitto dal primo gennaio 2008 al primo ottobre 2019 (fonte: United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), 2019)
Nei suoi rapporti pone l’attenzione sull’utilizzo distorto delle risorse idriche dei palestinesi.
ML Se non hai diritto e possibilità di controllare l’acqua della tua terra, non hai alcuna reale sovranità sul tuo territorio. L’acqua è essenziale per la vita umana, un accesso costante e sicuro è importante tanto quanto il controllo delle proprie risorse idriche. Spesso pensiamo che l’area del Medio Oriente sia arida e questo in una certa misura è vero. In realtà ci sono importanti fonti di acqua potabile e pulita nella West Bank. Ogni anno a Ramallah si verificano tante precipitazioni quanto a Londra, quindi ci sarebbe abbondanza di risorse idriche all’interno del territorio della Cisgiordania. Risorse che secondo il diritto internazionale e una serie di risoluzioni delle Nazioni Unite, appartengono ai palestinesi.
E invece?
ML Purtroppo però questi non ne hanno alcun controllo. Una recente stima ha rilevato che i residenti di Israele e i coloni israeliani consumano circa 250 litri per persona al giorno, tre volte tanto rispetto ai palestinesi della Cisgiordania (84 litri). Secondo B’Tselem, i palestinesi stanno attualmente estraendo solo il 75% circa della loro quota di acqua come specificato negli accordi di Oslo (20% della falda acquifera totale), nonostante il fatto che la popolazione palestinese in Cisgiordania sia quasi raddoppiata dal 1995. Ciò è dovuto a diversi fattori, tra cui il fallimento delle nuove perforazioni e gli ostacoli amministrativi posti da Israele per quanto riguarda l’autorizzazione a sostituire le vecchie condutture e i pozzi di perforazione nell’area C. Di conseguenza, l’Autorità palestinese deve acquistare notevoli quantità di acqua da Mekorot -la società idrica israeliana- gran parte della quale è stata estratta dalla falda acquifera in Cisgiordania. Tutti gli insediamenti israeliani sono collegati al sistema idrico nazionale di Mekorot e ricevono quantità d’acqua per uso potabile, sanitario e commerciale da “mondo sviluppato”. Per contro, circa 180 comunità palestinesi del settore C non sono collegate ad una rete idrica. Le disparità più gravi sono nella Valle del Giordano: i dati del 2013 rivelano che ai 10.000 coloni israeliani della valle è stata fornita la stragrande maggioranza dei 32 milioni di metri cubi d’acqua che Mekorot ha estratto dal “Mountain Aquifer”. In confronto, a tutti e 2,7 milioni di palestinesi della Cisgiordania sono stati assegnati solo 103 milioni di metri cubi dalla falda occidentale.
Ricordo il mio primo viaggio negli anni Ottanta nei Territori occupati: le grandi piantagioni di banane nella Valle del Giordano possedute e gestite da palestinesi dell’epoca stavano scomparendo a causa della mancanza d’acqua e dell’impossibilità di scavare pozzi in profondità. Spostandosi di soli cinque chilometri, verso gli insediamenti israeliani, strumenti e disponibilità erano garantiti. Non credo siano cambiate molte cose da allora. Ecco perché Netanyahu ha promesso l’annessione immediata della Valle del Giordano in caso di rielezione: si tratta di un importante bacino agricolo e le sue risorse idriche sono fondamentali per la vivibilità e la sostenibilità degli insediamenti israeliani in quell’area.
Un’altra situazione molto tesa è quella di Hebron e della zona di “H2”. Che cosa sta succedendo?
ML La presenza dell’esercito israeliano a Hebron è sempre più massiccia e la separazione della città in due parti ha comportato la chiusura della maggior parte delle vie commerciali del centro, il cuore dell’economia cittadina. Il sentimento di impunità tra i coloni israeliani è diffuso: impediscono ai palestinesi di entrare nelle loro case, gettano spazzatura contro di loro, lanciano pietre e li minacciano. Le segnalazioni di aggressioni più rilevanti da parte dei coloni hanno riguardato Al Shuhada Street e il quartiere di Tel Rumeidah, dove i residenti palestinesi vivono nella paura costante di attacchi contro la loro persona e le loro proprietà. Negli ultimi mesi questa situazione è peggiorata anche perché Israele ha impedito il mantenimento della Temporary International Presence in Hebron (TIPH), che garantiva una qualche forma di protezione e tutela internazionale nell’interesse dei palestinesi. Un’altra promessa del primo ministro uscente Netanyahu è stata quella di voler esercitare un sempre maggiore controllo su Hebron. Resta da vedere che cosa accadrà a livello politico, anche se rispetto alle questioni dell’annessione e del controllo permanente dei Territori occupati, non credo si possa verificare un cambiamento strutturale delle politiche. La riduzione dello spazio per i palestinesi e per i difensori dei diritti umani palestinesi e israeliani prefigura un’annessione de facto di gran parte della Cisgiordania. Con la speranza esplicita che presto si possa ottenere un’annessione de iure.
Nelle conclusioni della sua relazione tratteggia un “futuro sempre più oscuro”. Che cosa ci aspetta?
ML È difficile essere ottimisti. Primo perché se continua questa forte crescita dei coloni in Cisgiordania o a Gerusalemme Est è complicato intravedere una genuina soluzione per due Stati e per l’autodeterminazione palestinese. In secondo luogo mi sembra che dopo dieci anni consecutivi di governo, la politica di Benjamin Netanyahu continuerà a vivere anche sotto altri esecutivi: l’idea cioè di uno Stato palestinese limitato a sei o sette città principali lungo la spina dorsale della Cisgiordania. Tutt’altro che uno Stato sovrano come inteso nel mondo moderno. La terza ragione è l’inazione della comunità internazionale. C’è stata un’eccezionale riluttanza e una mancanza di volontà in questi anni ad andare oltre le critiche rivolte alla politica israeliana, a chiedere ed esigere effettivamente il rispetto del diritto internazionale. E questo sarà il cuore del mio prossimo rapporto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di fine ottobre.
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