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Fuga negata dall’Afghanistan: i corridoi umanitari sono ancora bloccati per una macchinetta

Oltre 1.200 cittadini afghani, in larga parte donne e bambini, avrebbero dovuto trovare rifugio in Italia ma nelle nostre rappresentanze consolari in Iran e Pakistan manca da sette mesi lo strumento per rilevare le impronte. Arci, Caritas, Sant’Egidio e Tavola valdese chiedono al governo una deroga per accelerare le partenze

Nahal ha vent’anni e si presenta come “una ragazza come milioni di altre ragazze afghane, ma sono diversa. Non sono come le altre: sono una lesbica e per questo ritenuta colpevole”. Per anni la giovane ha tenuto nascosto il suo segreto: in Afghanistan, infatti, l’omosessualità è considerata un crimine, da punire con la pena di morte. “Potrei anche essere lapidata”, racconta nella testimonianza raccolta da Arci. A rendere ancora più precaria e insicura la sua vita è il fatto che Nahal (nome di fantasia) è hazara: appartiene cioè a una minoranza etnica di fede sciita che da anni viene colpita da sanguinosi attentati e feroci discriminazioni da parte dei Talebani. “Nessuno può capire quanto sia difficile e dolorosa la vita in questa situazione per una ragazza che vive in un Paese che considera le donne senza valore -spiega Nahal-. Ho paura che la mia famiglia sia in pericolo a causa mia”.

Il 15 agosto 2021, con la caduta di Kabul, i talebani hanno ripreso il controllo su tutto il Paese e Nahal ha deciso che era arrivato il momento di fuggire. A gennaio 2022 è riuscita a raggiungere l’Iran, dove ha trovato temporaneamente rifugio, da qui avrebbe dovuto raggiungere l’Italia grazie a un corridoio umanitario organizzato da Arci, Caritas italiana, Comunità di Sant’Egidio, Fcei/Tavola valdese che prevede di portare in salvo nel nostro Paese circa 1.200 cittadini afghani (in larga parte donne e bambini) che sono riusciti a raggiungere Iran e Pakistan. Il 4 novembre 2021 le associazioni hanno firmato l’apposito protocollo con i ministeri dell’Interno e degli Esteri. Sono passati sette mesi e da allora è tutto fermo.

A bloccare gli arrivi, spiega Arci, è la mancanza delle macchine necessarie a rilevare le impronte digitali dal costo di poche migliaia di euro. Una strumentazione che deve essere fornita dal Viminale alle sedi diplomatiche italiane in Iran e Pakistan. “La situazione per queste persone si sta facendo sempre più difficile -spiega ad Altreconomia Valentina Itri, di Arci-. Molte hanno lasciato l’Afghanistan con un visto turistico, altre con un visto per motivi di studio o cure mediche: tutti, però, hanno una durata limitata che è già scaduta o in scadenza. Rinnovarli non è facile e chi viene trovato senza documenti rischia il rimpatrio da parte delle autorità iraniane e pakistane”.

Le donne in attesa del volo per l’Italia si trovano in una condizione particolarmente rischiosa. Per loro il rientro in Afghanistan equivale a una condanna a morte: sono giornaliste, attiviste per i diritti umani, calciatrici, avvocate e magistrate già seguite da associazioni come Pangea e Nove Onlus. “Attualmente alcune di loro si trovano all’interno di case protette e sono le stesse Ong in questo momento a farsi carico dei costi -spiega Itri-. In Italia è tutto pronto per il loro arrivo: con il protocollo del 4 novembre ci siamo impegnati a garantire loro l’accoglienza per un anno. Non solo, a maggio 2022 abbiamo persino firmato un addendum con cui abbiamo acconsentito anche a sostenere il costo dei voli”.

Alla luce della drammatica -e paradossale- situazione in cui si trovano queste donne, le organizzazioni chiedono ai ministeri competenti di autorizzare la partenza di queste persone in deroga -come era stato fatto per i voli partiti da Kabul la scorsa estate- e prendere le impronte digitali all’arrivo in Italia. Una richiesta avanzata il 24 maggio anche con un’interrogazione parlamentare (presentata dai deputati Erasmo Palazzotto, Lia Quartapelle, Laura Boldrini, Graziano Delrio, Paola De Micheli e Francesca La Marca) per chiedere al ministero dell’Interno e a quello degli Esteri di intervenire il più rapidamente possibile denunciando come questo “cavillo” burocratico stia costringendo le donne, “alle quali il governo italiano aveva garantito accoglienza”, a “vivere in clandestinità e con l’angoscia di poter essere rimpatriate”. “Il regime talebano diventa ogni giorno più pericoloso e opprimente, come tutti sanno, e queste donne vanno messe al sicuro con urgenza senza ulteriori ritardi, ne va della loro vita e della nostra credibilità”, conclude Filippo Miraglia, responsabile immigrazione di Arci.

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