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Franco Cordero e il racconto dell’agonia civile dell’Italia di Silvio Berlusconi
Gli scritti del professore emerito di Procedura penale scomparso nel 2020 sono un antidoto alla beatificazione e all’autoassoluzione di questi giorni. Dal saggio “Il brodo delle undici” ripubblichiamo una biografia-bussola dell’ex presidente del Consiglio e un’indimenticabile voce tratta del suo indice dei nomi e degli argomenti
Nessuno meglio di Franco Cordero ha raccontato l’agonia civile dell’Italia di Silvio Berlusconi. Il professore emerito di Procedura penale presso l’Università La Sapienza di Roma, raffinato giornalista, scrittore, lettore, nato a Cuneo nel 1928 e scomparso nel maggio del 2020, lo ha fatto negli anni d’oro dell'”abbagliante tribuno”, vivo e vegeto, e non quando era già cascato, quando cioè era più facile.
I suoi pamphlet editi da Bollati Boringhieri o i suoi articoli su la Repubblica erano trame complesse che illuminavano ogni angolo della regressione intellettuale del nostro Paese, chiamava le cose con il loro nome, scavando in un personale pozzo librario che non aveva fondo (a fine aprile di quest’anno i suoi eredi hanno deciso di mettere a disposizione del pubblico e degli studiosi il suo archivio, le sue pubblicazioni e la sua collezione di libri grazie a un progetto della biblioteca civica di Cuneo, la Fondazione Polo del ‘900 e l’Istituto internazionale per l’unificazione del Diritto privato di Roma). Quelle cose scritte fanno tanta luce ancora adesso, sono un antidoto alla beatificazione e alla diffusa autoassoluzione. Un regalo, per chi vuole coglierlo.
Nella società della corruzione Cordero difese quella delle parole. Memorabili i suoi ragionati indici dei nomi e degli argomenti. La voce “Berlusconi, Silvio” nel saggio “Il brodo delle undici” (Bollati Boringhieri, febbraio 2010) adesso è come un viaggio nel tempo, quasi effetto nostalgia. Prima descrizione: “Prefigurato da L. Gelli”. Ultima: “Comanda i falchi”. In mezzo: “Costerà caro al Paese”. Chicca extra: “Vuole un personale dalla fedeltà canina, quindi le selezioni puntano in giù”. In quel saggio ingegnoso dedicò un capitolo alla “resistibile ascesa” di Berlusconi, provando a raccontare chi fosse davvero. Tre pagine con dentro un mondo guasto. Eccole.
Tratto da “Il brodo delle undici” di Franco Cordero, ed. Bollati Boringhieri
Chi è
Silvio Berlusconi nasce nella milanese Isola Garibaldi, via Volturno 34, 29 settembre 1936, da famiglia modesta, e manifesta presto caratteri congeniali all’Italia del miracolo economico: ciarlone, bugiardo, blagueur, istrione nel modulo pianto-riso-ringhio; la qualità scenica specifica è una mimica logorroica (i bagalún del lüster vendevano lucido da scarpe nelle fiere); può anche riuscire simpatico.
Domineddio dev’essersi dimenticato d’infondergli l’anima (secondo san Tommaso le crea singolarmente, tante quanti gli ovuli fecondati, donde spaventosi quesiti: perché fabbricarne miriadi, giorno e notte, sapendo l’orrenda fine alla quale gran parte dell’armento è destinata?; e notiamo come sia Lui l’autore dei destini).
Tornando a B., gli manca l’organo della vita intellettuale, etica, estetica. In compenso ha un apparato percettivo e motorio adatto alla caccia: animale monstre, del genere caimano o squalo, diversamente dai quali allarga le ganasce nel riso, scherza, parla come le fontane buttano acqua, suona, balla; e l’ascendente ilare moltiplica le prede.
Laurea tardiva in legge, imprese edili, bilanci opachi, girandole societarie, affari via via più grossi. Viene su a coups de main. Uno è l’acquisto della principesca villa d’Arcore dall’unica erede Casati Stampa: costa poco, quasi niente; mediava la compravendita un avvocato, già protutore dell’alienante, sulla cui testa peseranno condanne penali perché gli compra favori giudiziari (così sedici anni dopo, diventa editore dominante, padrone della Mondadori); e lì, a Villa San Martino, s’insedia uno pseudostalliere, boss mafioso, restandovi due anni. Sta a pennello nella P2. Sinora era storia d’ordinario affarismo. Quando la Consulta schiude l’etere ai privati abolendo il monopolio statale, irrompe e divora i concorrenti.
L’arma è una gestione stregonesca: soap-opere, vaudeville sguaiato, lotterie, giochi, un allegro mondo finto dove la fortuna sta dietro l’angolo; niente che affatichi i neuroni, lasciamoli dormire (la Rai manda in onda Omero, Flaubert, Tolstoj o simili barbose pappolate); così cattura l’audience e rastrella pubblicità.
La Corte postulava dei limiti. Come non detto, e quando dei pretori tentano d’imporli, gli presta man forte Bettino Craxi, presidente del Consiglio dettando scandalosi decreti. L’operazione costa un occhio ma ne valeva due. Giulio Andreotti vara una legge Mammì che lo consacra duopolista: cinque ministri democristiani tentavano d’impedire l’abuso dimettendosi, impassibile, li sostituisce d’un colpo.
La cadente Repubblica era corrotta nelle midolla: gliele mangiavano consorterie fameliche, quindi odiose agl’imprenditori; un’inchiesta penale innesca la spirale; e finiscono travolte.
Nel vuoto entra lui, fingendosi uomo nuovo in polemica col professionismo politico parassitario del quale è figlio: gl’ignari lo vedono liberal-liberista, pragmatico, semplificatore; accorrono dei chierici delusi dal vecchio establishment. Vari segni destano sospetti: ad esempio, l’inno, talmente volgare da non attecchire; quel sorriso digrignato ha l’aspetto fisso delle maschere; l’Ego gli cade da ogni parte. Vinta la partita elettorale, figura male al governo, com’era prevedibile.
Gli mancano qualità organiche: la cura degl’interessi altrui in prospettive lunghe implica distacco dall’Io; lui vi sta avviluppato, un pitone nelle spire; era affarista da preda, tale rimane, insofferente d’ogni regola. Non è il suo mestiere: dura solo sei mesi ma disponendo d’un ordigno formidabile, l’adopera senza scrupoli, sul presupposto che lo spettatore medio, frollato al punto giusto, abbia l’età mentale d’undici anni, e dipenda solo dallo stregone abbassarla ancora; dopo sedici mesi d’interregno, raccoglie più voti del cartello avversario, perdendo nei Collegi uninominali.
Sul campo è l’antipode del capitalista weberiano. Imprenditore? No, impresario d’una lobectomia collettiva e scorridore d’affari: pratica ridendo menzogna sistematica, fraudolenta quando occorre, arte del corrompere, plagio spietato; predatore-barzellettiere dai riflessi infallibili, non patisce fisime inibitorie né perde tempo in fatiche mentali; nel suo genere combina mirabilia. Qui viene utile la scienza del viso: il catalogo medievale degl’indizi include soprannomi e mala physiognomia; le icone berlusconiane, meticolosamente curate dagli addetti, dicono tutto.
Quel sorriso soddisfatto negli anni diventa ghigno ma ogni tanto riappare; ad esempio nel fotogramma d’un “Porta a porta”, settembre 2008: occhi chiusi, s’aggiusta il colletto avendo al fianco una miss incoronata, dallo sguardo vacuo e dimesso. Esalano ferreo cattivo gusto le pose tra noir e cabaret, sotto un cappello a larghe tese, abito bianco, sigaretta fumigante, occhi hard. Altrove la sigaretta è lunga e spenta, fiammifero acceso: neri cappello e giacca, smorfioso l’angolo della bocca; socchiuso e ancora più rapace l’occhio sinistro. In una delle prime epifanie politiche, sul palco, allarga braccia e mascelle nella posa delle soubrettes, un piede avanti, uno dietro col tacco sollevato come stesse levandosi in volo. E come sorride tronfio nella famosa icona del vertice internazionale dove fa le corna al ministro spagnolo degli Esteri.
Dall’indice dei nomi e degli argomenti de “Il brodo delle undici”, ed. Bollati Boringhieri
Berlusconi, Silvio – Prefigurato da Licio Gelli. Tessera P2 n. 1816. Mutua dottrine dalla fonte piduista. Privo d’anima, ha i riflessi d’un caimano o squalo, sotto l’ilare maschera da blagueur, utilissima nella caccia.
Origine e ascesa. Monopolista delle televisioni commerciali in barba alle regole, sotto le ali d’una classe politica corrotta, la cui eredità raccoglie scendendo in campo perché vuol gestirsi da solo le fortune, addobbato en homme d’État. Salta dalla Fininvest a Palazzo Chigi, cadendo dopo sei mesi (22 dicembre 1994), ma le televisioni sono formidabile ordigno elettorale, rinforzato da un’assoluta amoralità, molto spendibile nella fiera politica, sicché sfiora una seconda vittoria.
Insuperabile in frode, corruzione, plagio. Cosa dicono le pose fotografiche. Nel suo rudimentale sermonario “i comunisti” fungono da bestia nera, anzi rossa, sebbene abbia uno stretto feeling con V. Putin e gli sia congeniale lo stile Kgb. Accoglie transfughi dal Pci. Vuole un personale dalla fedeltà canina, quindi le selezioni puntano in giù. Esibisce aspetti affini al fenomeno hitleriano. Entrambi vivono fantasie psicotiche acted out. Per pochi voti non rivince, aprile 2006, dopo uno dei peggiori governi mai visti, ma riappare presto perché l’avversario consuma un inglorioso suicidio. Sulle ali della terza vittoria elettorale, sfrena l’impulso egocratico. Figura male nel confronto con Licio Gelli. Predone ignorante e ingordo ma demiurgo (che sventura), quali non erano G. Savonarola, G. Mazzini, F. Crispi, B. Mussolini. Governa pensieri e costumi. Anche i caimani hanno dei Todestriebe, infatti riesce a guastarsi la vita con pratiche incaute, gestendo malissimo lo scandalo politico, ma è wishful thinking dirlo spacciato. L’aspetto estetico o morale non gli fa né caldo né freddo e dovesse mai cadere, vorrebbe nell’abisso l’intero mondo, come Kniébolo. Sa d’essere vulnerabile sul terreno penale, quindi pretende l’immunità e se l’era affatturata (tarda primavera 2003) associandosi quattro presidenti (Repubblica, Senato, Camera, Consulta). L’episodio ricorda una legge votata ex abrupto dalle Camere in divisa fascista, 30 marzo 1938, quando B. Mussolini diventa Primo Maresciallo dell’Impero ex aequo con Sua Maestà. Ma quel lodo su commissione nasce invalido e tale lo dichiara la Corte costituzionale, 13 gennaio 2004, né varrebbe nella forma delle revisioni ex art. 138 Cost.. Dopo la terza vittoria elettorale simula una metamorfosi. La maschera gli cade presto, rivuole l’immunità, subito, prospettando alternative devastanti.
Il Quirinale sarebbe cauto se evitasse ogni contatto equivocabile. Era invalido quel primo lodo, altrettanto male nasce il secondo. Sopravviene la condanna al risarcimento dei danni subiti dal soccombente nella lite Mondadori, la cui sentenza consta che fosse comprata. Eloquio, dottrina, stile d’Arcore. Aspettava un ossequioso sì dalla Consulta (6 ottobre 2009). Stupore, collera, invettive. Dopo l’infausta estate 2009, lo scacco gli riaccende le midolla. I consulenti studiano nuove norme ad divum Berlusconem. Soperchieria e frode, caso unico nella storia italiana. Discorsi da fiera peronista. È il loup descritto da La Fontaine nella satira d’un Florentin. Deplora lo scadimento del Corriere della Sera, passato a sinistra. Nichilista. Opera una terrificante rivoluzione del costume. Cosa direbbe A. de Tocqueville. Effusioni raccolte da don L. Verzé. Dopo gli inni, parla ai fedeli nella sagra (Benevento, 11 ottobre 2009), esponendo le sue rogne giudiziarie come capitali questioni politiche. Allusioni minatorie all’autore della condanna nell’affare Mondadori. Cova riforme da lasciare il mondo senza fiato, come A. Hitler quando assale l’Urss. Esige misure forti e immediate pro domo sua. Discorso egolatrico nell’Autodromo (Monza, 12 ottobre). Ha un futuro celeste garantito.
Eluderà i dibattimenti ripetendo i gesti codardi della primavera 2003, in attesa del primo lodo. Benedetto da una svista legislativa, lucra la prescrizione nel processo Mondadori. Come sarebbe risolta la questione degl’impedimenti se la prassi berlusconiana ammettesse dei barlumi morali. Quanto dista dal condottiero fra’ Moriale. Lui e Cola, analisi comparata. Figura fosca ma è ricchissimo, assolda quanti mercenari vuole, incute paura e finché sia strapotente, mieterà consensi. Vuol riscriversi la Carta. In qual modo abbia invaso l’Italia. Gli anestesisti la tengono sotto narcosi. L’astuto G. Prezzolini salvava le forme del décor intellettuale, mentre l’attuale regime impone al chiericato musiche triviali. Appare torvo, ispessito, straparlante. Prognosi d’una lunga durata. Sinora giocava contro avversari poco temibili. Ha un punto debole nell’hybris. A Strasburgo ingiuria un parlamentare tedesco chiamandolo “Kapò”, perché s’era permesso dei quesiti. Medita purghe spietate nelle file. Atroce cattivo gusto. Potendo, estirperebbe l’organo del pensiero ai sudditi. Cosa intenda per “privacy”, lo dicono sue telecamere quando spiano l’autore d’una sentenza che gli reca disturbo. Ad terrendum affossa il direttore dell’Avvenire. I suoi modelli implicano capillari controlli polizieschi.
Disprezza ogni animale umano, uomo o donna. Vanta il “patto d’acciaio” con la Lega, sulla cui fedeltà è plausibile qualche dubbio. Gli ottimisti sognano improbabili alchimie governative sine Berluscone. L’ha allevato un’Italia guasta. Mediocri politicanti lo sottovalutavano. Unico demiurgo nella storia italiana, con radici fonde, ma incassa male i colpi, in pose che ricordano il tribuno romano défaillant. Costerà caro al Paese. Come lo giudicherebbe L. Albertini, cultore delle élites borghesi. Patisce l’antagonismo del partner junior nel Pdl. Coatto a ripetersi. L’ultimo scempio nel tentativo d’eludere i processi. Offeso dalle parole fuori onda del partner junior (Pescara, 6 novembre 2009). Da Bonn (10 dicembre 2009) muove guerra alle istituzioni italiane incompatibili col disegno autocratico.
Aggredito domenica sera 13 dicembre e quanto favore gli porta il gesto d’uno psicolabile. Blandi oppositori gli rendono ossequio, sicché pare acquisito il privilegio immunitario. Come risponde. Perdona “umanamente” l’autore del gesto manesco, attribuendogli inverosimili intenti omicidi, e chiede che resti sotto custodia. Dominus dixit ai dignitari nella conference call 22 dicembre. Diktate agli oppositori e al capo dello Stato. Lucra un plusvalore nell’erotometro demoscopico (dal 48,6% al 55,9%). Comanda i falchi.
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