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Ambiente / Approfondimento

Fotovoltaico a terra: tra rischi e benefici per il (fragile) suolo

L’ultimo Rapporto sul consumo di suolo 2021 dell’Ispra rileva che nel 2020 sono stati “consumati” 179 ettari di suolo per l’installazione di nuovi impianti fotovoltaici a terra. Nello stesso anno si stima che i pannelli installati a terra siano il 42% del totale (foto shutterstock.com)

Servono più pannelli per garantire la centralità delle fonti rinnovabili ma è fondamentale tenere in considerazione anche la tutela del territorio. Le soluzioni esistono già. Facciamo il punto

Tratto da Altreconomia 248 — Maggio 2022

Ci sono due numeri che sintetizzano la tensione tra due urgenze ugualmente pressanti per chi ha a cuore la tutela del territorio e il contrasto ai cambiamenti climatici. Da un lato i 70 GW di nuova potenza energetica da fonti rinnovabili (fotovoltaico ed eolico) che devono essere installati in Italia entro il 2030 per ridurre del 55% le emissioni di gas climalteranti. Dall’altro i 179 ettari di suolo “consumati” nel 2020 dall’installazione di nuovi impianti fotovoltaici a terra, come rilevato dal Rapporto sul consumo di suolo 2021 dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale). Una tensione già presente in molte aree del Paese, soprattutto quando l’installazione di nuovi impianti fotovoltaici a terra riguarda terreni agricoli. È il caso, ad esempio, di un parco solare da 3.500 moduli che avrebbe dovuto essere realizzato nel Comune di Mogliano Veneto (TV) “in un’area che si estende su oltre 12 ettari”, come ricorda il Forum Salviamo il Paesaggio. Un progetto che il 22 marzo 2022 è stato definitivamente bloccato dalla Regione Veneto.

Per raggiungere gli obiettivi del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) ai 22 GW di pannelli fotovoltaici già installati se ne dovranno aggiungere altri 30: usando come riferimento il trend di diffusione di questa tecnologia in Italia (al 2020 nel 42% dei casi i pannelli sono installati a terra e nel 58% dei casi su edifici) il Gestore dei servizi elettrici (Gse) ha ipotizzato “una superficie incrementale di 210 chilometri quadrati (di pannelli fotovoltaici, ndr) a terra e 140 chilometri quadrati su edificio”, si legge nel Report sul consumo di suolo di Ispra.

Il rischio, dunque, è che nei prossimi otto anni i pannelli fotovoltaici installati a terra vadano a coprire migliaia di ettari di suolo. Bilanciare questi due interessi è una sfida complessa e urgente. “Parlare subito di agrivoltaico significa concentrarsi sull’ultimo tassello della questione. Prima di installare impianti fotovoltaici sui terreni agricoli c’è una scala di possibili interventi: ci sono le coperture, il terreno già impermeabilizzato, quello degradato o inquinato”, spiega Gianluca Ruggieri, ricercatore all’Università dell’Insubria, attivista energetico da sempre impegnato per la promozione dell’efficienza energetica e della riduzione dei consumi nonché tra i fondatori della cooperativa energetica “ènostra”.

Installare i pannelli fotovoltaici sulle coperture degli edifici, su parcheggi e aree industriali dismesse permetterebbe di ridurre in maniera significativa il consumo di suolo. Ispra calcola che utilizzando i tetti (escludendo quelli dei centri storici) e le aree già impermeabilizzate si potrebbe generare una potenza da fotovoltaico compresa tra 59 e 77 GW, un quantitativo sufficiente a coprire l’aumento di energia da fonti rinnovabili previsto dal Pniec al 2030. L’istituto, però, sottolinea “la necessità di realizzare anche grandi impianti a terra”, dando la precedenza a terreni non agricoli e non greenfield.

I grandi impianti a terra, infatti, hanno una maggiore efficienza e, come sottolinea Ruggieri, sono necessari alla transizione: “La scala di quello che dobbiamo fare è enorme, anche perché quelli fissati al 2030 sono solo il primo passo verso obiettivi più ambiziosi. Penso che i grandi impianti e la produzione diffusa debbano integrarsi: quelli di piccole dimensioni sono molto importanti per assicurare l’equilibrio della rete, per far crescere la consapevolezza tra i cittadini e per offrire un’alternativa. Se la produzione di energia da fonti rinnovabili resterà nelle mani di pochi, però, rischiamo di trovarci in una situazione molto simile a quella attuale in cui la gestione dell’energia fossile è in mano a pochi soggetti”.

“L’emergenza climatica ci chiede di ottenere una grande potenza energetica da rinnovabili in pochi anni e questo mette a rischio la tutela del suolo” – Paolo Pileri

Per Paolo Pileri, docente di Pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano, oggi vengono messi in contrapposizione due bisogni primari: il cibo e l’energia. “L’emergenza climatica ci chiede di ottenere una grande potenza energetica da rinnovabili in pochi anni e questo mette a rischio la tutela del suolo -spiega Pileri-. Le alternative ci sono: si potrebbero sfruttare le aree demaniali, dove ci sono parecchi ettari di suolo già impermeabilizzato, facendo attenzione però a tutelare le aree di pregio storico e architettonico. Prima del suolo ci sono i tetti, ma anche in questo caso bisogna preservare quelli dei borghi storici”.

Quello che è mancato, sottolinea Pileri, è un piano nazionale che stabilisse dove installare gli impianti, in modo particolare quelli di grandi dimensioni: “Non si deve installare nulla se prima non c’è un piano chiaro con criteri omogenei per tutte le Regioni. Ma soprattutto manca un osservatorio che monitori questi interventi: non si può gestire quello che non si misura”. Una situazione che Altreconomia aveva già raccontato a settembre 2020 evidenziando come il nodo critico non fosse il fotovoltaico in sé ma l’assenza di argini che regolamentassero le grandi strutture. Limiti che non sono stati fissati nemmeno dal Pniec che non ha adottato misure per contenere il consumo di suolo.

“Le Regioni dovrebbero individuare le aree non idonee per questi impianti, ma questo non è stato fatto o è stato fatto in maniera molto disomogenea -precisa Michele Munafò, responsabile del servizio per il sistema informativo nazionale ambientale di Ispra-. Quello che osserviamo è la mancanza di riferimenti specifici alla protezione delle aree agricole, che in alcuni casi vengono tutelate, ad esempio se si parla di colture di pregio. Mentre in altri casi il tema non viene preso in considerazione”.

70 GigaWatt è la nuova potenza energetica da fonti rinnovabili (fotovoltaico ed eolico) che devono essere installati in Italia entro il 2030. L’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, calcola che utilizzando i tetti (esclusi quelli dei centri storici) e le aree già già impermeabilizzate si potrebbe generare una potenza da fotovoltaico compresa tra 59 e 77 GW

Secondo quanto riporta Legambiente nel reportScacco matto alle rinnovabili” del novembre 2021 sono 12 le Regioni che hanno individuato le aree non idonee all’installazione di impianti fotovoltaici: Piemonte, Valle d’Aosta, Veneto Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata e Sardegna. La confusione in materia non solo mette a rischio i suoli agricoli ma frena l’installazione di impianti eolici e fotovoltaici. Legambiente denuncia la “mancanza di un quadro normativo unico e certo, in grado di mettere ordine e di ispirare le decisioni di tutti gli attori coinvolti nei processi di valutazione e autorizzativi”.

Una mancanza di chiarezza che porta conflitti di competenza tra le istituzioni, come nel caso dell’impianto fotovoltaico da 10,65 MW che dovrebbe essere realizzato su un’area industriale nel Comune di Macomer (NU): autorizzato dalla Regione, il progetto viene contestato dall’ente locale. Per questo Legambiente chiede “regole nuove che sappiano mettere al centro le esigenze dei territori passando per una partecipazione degli stessi, ma che siano in grado di fare realizzare 9 GW di fonti rinnovabili all’anno da qui al 2030”.

Questa situazione si somma alla fragilità dell’agricoltura italiana: “Sta perdendo mercato: le aziende agricole nel nostro Paese sono più piccole (la media è di circa 20 ettari, ndr) rispetto a quelle di altri Stati europei, eppure cercano di competere con loro nella coltivazione di prodotti come mais e soia. L’età media dei titolari è elevata, mancano giovani e capacità di innovazione. In questo scenario un agricoltore anziano che decide di vendere o affittare i suoi terreni per installare un impianto fotovoltaico lo fa per cogliere un’opportunità di breve termine e compensare la diminuzione dei guadagni”, dice Davide Ciccarese, esperto in agricoltura e ricercatore che sta svolgendo un post dottorato presso il Dipartimento di Scienze della terra, atmosferiche e planetarie al Mit di Boston.

Per Ciccarese il suolo agricolo è una risorsa scarsa e preziosa: dedicarlo al fotovoltaico è un rischio. E questo vale anche per quelle aree che potrebbero essere considerate “sacrificabili”: “Ci sono colture che richiedono quantità enormi di acqua: in un futuro, con il cambiamento climatico potrebbero essere sostituite da altre che necessitano minore irrigazione, recuperando così anche terreni che oggi non sono utilizzati perché poco produttivi”, spiega. Per il ricercatore l’agricoltura del futuro dovrà concentrarsi sempre più su prodotti di qualità mentre la produzione da fonti rinnovabili dovrà andare a concentrarsi nelle aree urbane e peri-urbane. In particolare, sui suoli già coperti. “La corsa al solare rischia di inghiottire i piccoli proprietari terrieri”, avverte Pileri che insiste sull’esigenza di concentrare lo sguardo lontano dai terreni produttivi e indica un’ulteriore possibile alternativa: i suoli inquinati, che potrebbero essere bonificati grazie alle risorse generate con la produzione di energia.

“Non tutti i suoli sono uguali. In alcuni casi il fotovoltaico non altera i servizi ecosistemici e in altri li può persino migliorare. Serve valutare caso per caso” – Gianluca Ruggieri

“Se valutiamo necessario installare un impianto fotovoltaico a terra è corretto ragionare su quale sia l’impatto. Anche la produzione agricola, in modo particolare quella industriale, può avere impatti negativi sul terreno riducendo alcuni servizi ecosistemici come la biodiversità -aggiunge Gianluca Ruggieri-. Non tutti i suoli sono uguali, occorre prenderne in considerazione le caratteristiche: in alcuni casi l’installazione di un impianto fotovoltaico non altera i servizi ecosistemici e in altri li può persino migliorare. Occorre valutare caso per caso”.

A questo riguardo sono stati pubblicati alcuni studi che dimostrano come una progettazione attenta di impianti a terra possa ridurre il rischio di erosione del suolo o creare habitat migliori per gli insetti impollinatori. Uno studio condotto nel Regno Unito, ad esempio, ha mostrato “l’aumento di diversità della vegetazione e nel numero di farfalle” in 11 parchi solari. Mentre lo studio “Solar park management and design to boost bumble bee population” -condotto sempre nel Regno Unito- è arrivato alla conclusione che queste infrastrutture “potrebbero rappresentare un’opportunità per affrontare i fattori di declino degli impollinatori”: quando alla base degli impianti si sviluppa un prato fiorito la popolazione di bombi aumenta significativamente.

C’è poi un’ulteriore soluzione: la progettazione e realizzazione di impianti fotovoltaici che vadano a integrare in maniera organica la produzione agricola, i cosiddetti sistemi agro-voltaici in cui i pannelli vengono usati per proteggere le colture dalla grandine o da un irradiamento solare eccessivo: “Diversi studi ci dicono che alle nostre latitudini l’aumento delle temperature a causa dei cambiamenti climatici metterà in difficoltà l’agricoltura: il fotovoltaico in questo senso può rappresentare una forma di protezione -spiega Alessandra Scognamiglio, ricercatrice Enea-. Per questo motivo, gli impianti fotovoltaici pensati per integrarsi con l’agricoltura devono essere realizzati su misura, guardando non solo alle esigenze della coltura, ma anche al passaggio dei macchinari. Proprio per questa attenzione ‘sartoriale’, i sistemi agro-voltaici sono radicalmente diversi dal semplice impianto a terra”. Un ulteriore beneficio di questo approccio, sottolinea Scognamiglio, deriva dalla possibilità di integrare il reddito derivante dalla produzione di energia elettrica con l’attività agricola: recuperando in questo modo suoli poco produttivi o non particolarmente redditizi. 

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