Diritti / Intervista
Esodo, il racconto della grande migrazione
di Duccio Facchini —
In un tempo in cui “l’uomo non è nulla e un visto da rifugiato è tutto”, il giornalista Domenico Quirico ha camminato insieme ai migranti, descrivendone il passo, le ingiustizie e i desideri. Dal Mali alla Serbia, dal Niger alla Libia, fino a Melilla, Calais o Lampedusa. Il risultato è un libro intenso, che non vuole incutere paura ma “far conoscere degli uomini ad altri uomini”. L’abbiamo intervistato
“Esodo. Storia del nuovo millennio” è il racconto della “grande migrazione” che il giornalista Domenico Quirico ha scritto indossando i panni del testimone delle tragedie umane (l’editore è Neri Pozza). “Io li guardo, loro vivono”, riconosce mentre ondeggia in mezzo al Mediterraneo per 22 ore, “affratellato” a 112 migranti sbarcati da Zarzis, in Tunisia. Quello di Quirico è un volume sterminato per la vastità dei luoghi che attraversa -da Tunisi a Bamako, in Mali, dal confine tra Ungheria e Serbia di Horgos al Cara di Mineo, dal Niger su fino ai confini della Libia, dalla foresta dei dannati di Melilla, tra Spagna e Marocco, al lembo tra Turchia e Siria, Paese dove è stato sequestrato per 152 giorni nel 2013-, ma è sempre saldo a un punto: la “migrazione è cambiata dentro” e l’accontentato Occidente non se n’è accorto. L’autore perciò mescola il suo corpo a quello di chi migra, senza camuffamenti, compie il “Viaggio” per “l’arrogante volontà di capire perché un popolo di ragazzi rischia la vita per afferrare l’Europa”, in un tempo in cui “l’uomo non è nulla e un visto da rifugiato è tutto”. Provando a conoscere un popolo di “migranti” e non di “clandestini” (una parola che “inganna, svia”, scrive).
Quirico, che ha aspetto ha il “mondo nuovo” che ha voluto incontrare?
DQ È molto semplice: ci sono parti del mondo che si stanno svuotando, e che sono sostanzialmente l’Africa e il vicino Oriente, e altre parti del mondo che invece si stanno colmando di uomini che si trasferiscono, vanno da un’altra parte, migrano. Le motivazioni sono infinite e non riassumibili negli stereotipi “scappano dalla guerra”, “scappano dalla miseria”. Esistono moltissime motivazioni: personali, o dovute a riti di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, volontà di cercare un mondo diverso, l’utilizzo di strumenti di comunicazione che permettono di accedere alla visione di mondi nuovi. Tutto questo si è combinato in un movimento gigantesco, tumultuoso e irrefrenabile. Che è la migrazione.
All’inizio del libro sottolinea come la “grande migrazione” imponga un mutamento obbligatorio della vita del cronista, narratore, sociologo e analista, che deve “avventurarsi non più solo con la testa ma con il corpo”. Che cosa implica tutto questo?
DQ Che bisogna andarci, bisogna seguirla, bisogna camminarci insieme; è un fenomeno che non si può raccontare stando in uno studio universitario, in una redazione di un giornale. Inevitabilmente ne risulta un racconto falso. La migrazione non è un problema dell’incrocio di dati, non è un problema di risalire a delle cause storiche e nemmeno di accumulare interviste dei migranti, di coloro che li aiutano o di coloro che li vorrebbero ammazzare. È un problema di movimento, di corpo, di andarci insieme e navigare con loro, sudare con loro, aver paura con loro. È l’unico modo per raccontarlo in modo onesto. E non è tanto un problema etico -considero chi fa ricerca o chi fa giornalismo stando lontano da ciò che racconta un disonesto- quanto più un problema di efficacia dell’attività di analisi e di racconto. È un fenomeno che nasce dallo spostamento, dal movimento. Si può raccontare solo condividendone il ritmo.
A proposito di “soluzioni”, in un passaggio del libro fa riferimento al ruolo delle Nazioni Unite, a fronte di un’Europa impegnata a stipulare accordi con governi dittatoriali. Che cosa intende?
DQ Si deve riconoscere un’identità a parte a questo mondo in movimento. E non considerarlo semplicemente collegato alle realtà di partenza. È un errore infatti continuare a pensare al fenomeno della migrazione riferendosi alle realtà socio-politiche ed economiche di partenza. Ad esempio parlando del “problema somalo”, o “eritreo” o “saheliano”. È vero che i migranti sono tutti diversi l’uno dall’altro, ma nell’atto della migrazione diventano una cosa unica, un fenomeno storico nuovo. E allora bisogna riconoscere questa sua unicità.
Come?
DQ Proprio per questo cito le Nazioni Unite. Dobbiamo riconoscere che nel XXI secolo è nata una realtà nuova. La migrazione fa parte della storia, ma per numero, caratteristiche, pluralità dei luoghi da cui questo fenomeno si manifesta, tutto ciò è nuovo. Ed è a questo fenomeno nuovo che va data un’identità specifica: il migrante è migrante. Dico una cosa un po’ paradossale, ma andrebbe rilasciata una sorta di passaporto del migrante. E a questo andrebbe affiancata la protezione sotto la bandiera di tutte le bandiere, quella delle Nazioni Unite, indipendentemente dalle ragioni per cui una persona migra.
Il problema nasce proprio da qui, dalla distinzione tra migrante economico e non economico. Un esercizio che esclude automaticamente milioni e milioni di persone, confinandole in un purgatorio da cui non si sa più come farle uscire. Ma il fenomeno è nuovo, ed è necessario individuare un modo amministrativo -uso questa parola anche se un po’ riduttiva- per inserirli in questa unicità, per dare il senso di questa differenza.
Dei 271mila migranti giunti in Europa attraverso il Mediterraneo nel 2016, il 30% erano cittadini siriani. Nel libro descrive l’orrore del conflitto in Siria, dove ha avuto modo di tornare anche recentemente. Quale situazione ha ritrovato in quel Paese?
DQ Sono tornato nel Paese tre volte dopo il 2013. In Siria assistiamo a una sorta di calcificazione della situazione, una guerra permanente che vive di se stessa, in cui non esiste alcun orizzonte personale e umano che sia al di fuori della guerra. Che poi i protagonisti cambino, gli schieramenti si modifichino, ci siano delle avanzate o delle ritirate, tutto ciò non conta nulla. Quello che domina è il senso veramente sfiancante e tossico della continuazione per inerzia di una guerra senza senso e senza svolta. In Siria è sparita la diplomazia, contrariamente a quanto scriviamo sui giornali. Personaggi come Staffan De Mistura (inviato speciale dell’Onu per la Siria, ndr) sono personaggi da Petrolini. Quando guardo le conferenze stampa di De Mistura e poi vado in Siria, mi domando che rapporto ci sia tra queste due entità. Poi sarà anche un diplomatico straordinario, per carità, però quando accosto le immagini delle conferenze stampa di questo signore, elegantemente vestito, e poi faccio un giro in qualsiasi villaggio del Paese, non riesco a trovare il legame. La Siria è un luogo in cui soltanto la forza conta. Chi ha la capacità di esercitarla conta, gli altri non contano niente. E la diplomazia è morta, non c’è nessun tavolo, un luogo in cui incontrarsi, qualcuno che ti dia una mano.
L’ultimo capitolo di “Esodo” accompagna il lettore a Calais, in Francia, dove “il tramonto dell’Europa trasforma la sua terra in un fiore carnivoro”. Perché?
DQ È una scelta che segna la circolarità del viaggio, come ogni mio reportage. Calais è l’approdo, dove mi ero già recato quando facevo il corrispondente da Parigi. Allora Calais era già lì, così come la “giungla” (una zona boschiva divenuta accampamento permanente per quasi 10mila persone, ndr). Questo per dire quanto sia minimale la nostra attenzione, la nostra capacità di cogliere i fenomeni. Dei migranti non ce ne siamo accorti fino a che qualcuno in vacanza a Lampedusa ha notato dei barconi. Ma gli afghani, i pakistani, gli eritrei, i somali, già fuggivano.
Da autore del libro, si augurerebbe di suscitare sentimenti di paura, inquietudine o atterrimento nei lettori a fronte di un fenomeno tanto potente quanto incompreso?
DQ L’unica cosa che mi spiacerebbe aver generato è proprio la paura. Il libro è un modestissimo tentativo di far conoscere degli uomini ad altri uomini, e non certo di far sorgere la paura verso quegli altri uomini. L’urto con le realtà nuove e piene di vita, con aspetti di vario genere, anche terribili, che irrompono nel nostro quotidiano, nel nostro campare di rendita, dovrebbe generare invece una nuova energia, e non incutere paura. Poi ci sarà sempre una minoranza di squinternati che utilizza la paura per affari propri, ma questo purtroppo fa parte della storia umana, non possiamo certo cambiarla in poco tempo.
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