Diritti / Intervista
Luis Fondebrider. La storia nascosta nelle ossa
L’Equipo argentino de antropología forense cerca e identifica le persone scomparse vittime della violenza di Stato e di crimini contro l’umanità. Intervista al suo fondatore e direttore
“Non ci aspettavamo di essere candidati al premio Nobel per la pace. E anche se sappiamo come è andata a finire, la proposta ci ha onorato”, afferma sorridendo Luis Fondebrider, fondatore e direttore dell’Equipo argentino de antropolgía forense (EAAF). Da quando è stata istituita nel 1984 con l’obiettivo di cercare, trovare e identificare i desaparecidos della dittatura militare argentina, l’organizzazione non ha mai smesso di provare a rispondere a una precisa domanda: “¿Dónde están?”, dove si trovano? E se negli anni la domanda è rimasta sempre la stessa, sono cambiate le persone che l’hanno pronunciata. Non sono più solo le Abuelas de Plaza de Majo, le nonne che continuano a cercare i figli scomparsi negli anni del regime: tra il 1976 e il 1983, secondo i dati ufficiali, sono state almeno 30mila le persone sequestrate, uccise e fatte sparire nelle fosse e nei cimiteri clandestini di tutto il Paese. Ora a chiederlo sono le madri delle donne vittime di femminicidio. Sono le famiglie dei 43 studenti di Ayotzinapa scomparsi in Messico sei anni fa. Sono i padri che hanno perso un figlio nelle rotte che dal Centro America portano agli Stati Uniti. “Lavoriamo per loro, per chi non sa che cosa sia successo alla persona amata. Allora come oggi utilizziamo la scienza come uno strumento per rivendicare diritti e memoria. Crediamo che la restituzione del corpo sia un modo per dare dignità ai morti e ai vivi”, afferma Fondebrider.
Solo in Argentina l’Equipo ha ritrovato più di 1.400 corpi e ne ha identificati 800. Dall’anno della sua fondazione l’organizzazione è cresciuta: si è ampliata e ha approfondito i metodi di ricerca e analisi diventando un punto di riferimento internazionale chiamato a intervenire anche al di fuori dei confini del Paese. Fondebrider e l’Equipo hanno preso parte come consulenti alle indagini del Tribunale penale internazionale per la ex Yugoslavia. Hanno collaborato con l’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, la Corte interamericana per i diritti umani, il comitato internazionale della Croce Rossa e le commissioni per la verità del Perù, El Salvador, Haiti e Sudafrica. In più di 35 anni l’Equipo ha lavorato in oltre 50 Paesi, ha partecipato a casi di rilevanza mondiale, come l’identificazione del corpo del presidente cileno Salvador Allende e di Ernesto Che Guevara in Bolivia nel 1997. Una delle sue ultime missioni ha riguardato l’identificazione dei caduti durante la guerra delle Malvinas (il conflitto tra l’Argentina e il Regno Unito scoppiato nel 1982 per la sovranità delle isole Falkland, ndr) in cui ha riconosciuto 115 soldati sepolti senza nome.
Fondebrider, lei era un giovane studente universitario quando ha fondato l’Equipo argentino de antropolgía forense. Può raccontare come inizia la sua storia?
LF Abbiamo fondato l’Equipo nel 1984 per dare una risposta alle migliaia di persone che dopo la dittatura militare volevano sapere che cosa fosse successo ai loro familiari scomparsi. In quel momento, con il ritorno alla democrazia, si iniziava a dire che i corpi dei desaparecidos erano stati sepolti nei cimiteri di tutto il Paese. I giudici avevano ordinato le riesumazioni ma le procedure non avevano una precisa metodologia con la conseguenza che si persero evidenze scientifiche e che le identificazioni furono poche. Le Abuelas de Plaza de Majo chiesero l’intervento dell’American Association for the Advancement of Science che inviò nel Paese una delegazione di professionisti appartenenti a diverse discipline scientifiche. Tra loro c’era l’antropologo forense nordamericano Clyde Snow. Grazie al traduttore della delegazione, uno studente di medicina, siamo entrati in contatto con lui e abbiamo tenuto insieme la prima riesumazione. Nel 1986 abbiamo riconosciuto l’Equipo come una organizzazione scientifica non governativa con l’obiettivo di utilizzare l’antropologia forense per indagare sui casi di violazione dei diritti umani e crimini contro l’umanità. Volevamo continuare ad appoggiare i familiari, portando prove per il lavoro giudiziario, e volevamo essere parte dello sforzo comune per ottenere verità, giustizia, riparazione e memoria. Oggi è quello che continuiamo a fare.
“Utilizziamo la scienza come uno strumento per rivendicare diritti e memoria. Crediamo che la restituzione del corpo sia un modo per dare dignità ai morti e ai vivi”
Quali sono i casi di cui si occupa l’Equipo?
LF Sparizioni forzate in democrazia, femminicidi, violenza politica, etnica e religiosa. Li documentiamo attraverso la ricerca, il recupero, la determinazione della causa della morte e l’identificazione dei corpi delle vittime. Abbiamo relazioni con organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, le commissioni straordinarie per i diritti umani e soprattutto le organizzazioni della società civile da cui riceviamo le richieste di intervenire. Ora uno dei progetti principali fuori dall’Argentina è il “Proyecto Frontera” sul riconoscimento dei migranti scomparsi nelle rotte che dal Centro America portano in Messico e negli Stati Uniti. Abbiamo creato delle banche dati sulle persone scomparse nelle comunità e nei Paesi di origine grazie all’aiuto di istituzioni, Ong e dei comitati delle famiglie. Questo permette di organizzare le informazioni ante mortem e confrontarle con quelle ottenute al momento del ritrovamento.
Come è cambiato negli anni il lavoro dell’Equipo?
LF Dagli anni Novanta abbiamo viaggiato nel resto del continente latinoamericano e poi al di fuori del suo confini. Siamo stati in ex Yugoslavia, Medio Oriente, Vietnam e Sudafrica dove siamo intervenuti per riconoscere le persone scomparse durante l’apartheid. Poi il gruppo è cresciuto. Dalla prima formazione costituita da sette persone, oggi nella nostra organizzazione lavorano in 70 divisi tra Buenos Aires, dove si trova la nostra sede principale, New York, Messico e Sudafrica. Il nostro laboratorio di genetica forense è a Cordoba e abbiamo progetti in molti dei Paesi che sto nominando. Sul lato tecnico con il tempo la ricerca è diventata trasversale e ora mette insieme diverse discipline. Alcune sono tipiche dell’ambito forense, come la medicina e la biologia, mentre altre, come la fisica, non vi appartengono tradizionalmente. Il nostro processo parte dal cercare di capire chi è la persona che stiamo cercando, perché è scomparsa e in che circostanze, dove e quando. Ci serve per costruire un’ipotesi sul luogo in cui si potrebbero trovare i resti. Utilizziamo fonti scritte, documenti burocratici e articoli dei giornali, e fonti orali come le interviste ai familiari che conduciamo di persona. Dopo il recupero delle ossa, i resti sono portati in laboratorio dove si identifica la persona attraverso l’analisi del DNA.
Come è articolato il rapporto con le famiglie?
LF Non agiamo mai contro il volere dei familiari. Cerchiamo di costruire con loro una relazione basata sulla fiducia e sulla trasparenza. Durante ogni tappa del percorso li teniamo informati delle ipotesi che formuliamo e dei possibili risultati. Solitamente le persone che studiano i resti non parlano con i familiari delle vittime ma noi lo abbiamo sempre fatto. Quando abbiamo la possibilità di dare una notizia che riguarda il riconoscimento di un corpo, lo facciamo personalmente e non a distanza. Spieghiamo come è stato identificato, come abbiamo ottenuto il risultato e siamo sempre attenti ad ascoltare i bisogni e le esigenze delle famiglie. A loro non chiediamo nulla. Ci sosteniamo attraverso il finanziamento di donatori privati europei e statunitensi. Non riceviamo sostegno né da associazioni civili né da donatori privati argentini. Inoltre chi di noi partecipa a una missione internazionale mette quanto guadagnato in un fondo comune.
Che cosa vuole dire per un familiare ritrovare la persona cercata per anni?
LF Nei diversi Paesi in cui siamo intervenuti, indipendentemente dalla cultura, dalla lingua o dalla religione, le famiglie ci dicono che ritrovare un corpo è una forma di mitigazione della sofferenza e dell’angoscia. È raro che una famiglia decida di non volerlo vedere. Riaverlo è doloroso ma consente di mettere un punto a una lotta portata avanti per anni. Permette di andare a visitare la persona amata, magari di portare un fiore. Per me la restituzione è un risarcimento e una riparazione del dolore. È una forma di giustizia.
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