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Eni in Congo: il patteggiamento per induzione indebita

© Re:Common

Il 25 marzo il Gip Sofia Fioretta del Tribunale di Milano ha sanzionato la multinazionale al pagamento di un risarcimento di 11 milioni di euro ed un’ammenda di 800.000 euro per il reato di induzione indebita nel contesto del rinnovo delle licenze petrolifere Marine VI e VII, avvenuto nel 2014 nella Repubblica del Congo. L’associazione Re:Common, che per prima ha seguito il caso, esprime la sua soddisfazione

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano Sofia Fioretta, giovedì 25 marzo 2021, ha sanzionato Eni al pagamento di un risarcimento di 11 milioni di euro e un’ammenda di 800mila euro per il reato di induzione indebita nel contesto del rinnovo delle licenze petrolifere Marine VI e VII, avvenuto nel 2014 nella Repubblica del Congo. “Questa sentenza di patteggiamento ci dà ragione visto che per primi avevamo seguito il caso e lo abbiamo portato all’attenzione delle autorità inquirenti”, dichiara Antonio Tricarico dell’organizzazione Re:Common che esprime soddisfazione per la sentenza. “Anche grazie al nostro esposto, 11,8 milioni di euro finiscono nelle casse dello Stato dimostrando così che l’operato della Procura di Milano, nel perseguire reati economici transnazionali che coinvolgono imprese italiane, è stato efficace e utile per l’intera cittadinanza”.

I fatti si riferiscono ad alcune licenze ottenute da Eni nel 2013 e nel 2015 per produrre petrolio nei pozzi di Marine VI e VII nella Repubblica del Congo. Secondo l’impianto accusatorio iniziale la multinazionale italiana avrebbe ceduto quote di giacimenti petroliferi, al fine di ottenere il rinovo delle licenze per produrre petrolio, alla società privata congolese Aogc, riconducibile al presidente Denis Sassou Nguesso, ex militare al potere nel Paese da decenni. Aogc avrebbe a suo volta garantito il 23% di un altro giacimento, il Marine XI, alla World Natural Resources che, secondo le indagini della Procura, sarebbe stata riconducibile a Eni.

L’indagine sulla presunta corruzione internazionale nella Repubblica del Congo è stata aperta nel giugno 2015 a seguito di un esposto presentato alla procura di Milano da Re:Common insieme all’organizzazione Global Witness. Oltre a Eni erano stati indagati per corruzione internazionale, ora derubricata al reato di induzione indebita, anche il manager Roberto Casula, Alexander Haly, Ernest Akinmade e Maria Paduano. L’indagine ha portato a diversi sequestri e perquisizioni, anche fuori dall’Italia, ma sono ancora attesi da più di due anni i risultati di una rogatoria internazionale mossa a Montecarlo per acquisire documentazione sequestrata all’imprenditore inglese Haly. “Un precedente molto negativo per la cooperazione penale dentro l’Ue”, aggiunge Re:Common. “L’Eni non ha ammesso alcuna colpa, ma ha solo aderito alla pena concordata come proposta dalla Procura. Eni ritiene che in ogni caso il suo sistema interno anti-corruzione, secondo il dettato della legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle imprese, abbia tenuto”, sottolinea ancora l’associazione.

Nel corso dell’indagine anche l’amministratore delegato Claudio Descalzi è stato indagato per presunta omissione di dichiarazione di conflitto di interessi in relazione al ruolo ricoperto dalla moglie Maria Magdalena Ingba in alcune società che avrebbero beneficiato di prestiti per 104 milioni di dollari per servizi forniti nel Paese africano fra il 2012 e il 2017. Il manager ha sempre affermato che le operazioni contestate non sono mai state oggetto di sue valutazioni o decisioni.

“Dopo l’esito giudiziario di oggi, Eni dovrebbe condurre un serio approfondimento interno sulla vicenda, quanto meno sul piano disciplinare e su quello del modello di organizzazione e gestione, che serve proprio a prevenire il rischio della commissione di reati da parte degli organi societari, secondo la logica della legge 231”, continua Antonio Tricarico. “Ci si aspetta, quindi, un chiarimento dal management della società nei confronti degli azionisti e in particolare del principale azionista, ossia lo Stato italiano. E, sarebbe auspicabile, anche nei confronti della Consob, visto Eni è tra le più grandi imprese quotate alla borsa di Milano. Chiediamo perciò che Eni renda pubblica la sentenza di patteggiamento”, ha concluso.

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