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Diaz, la sentenza della Corte europea e il reato che non c’è

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese per non aver proibito la tortura durante i fatti della scuola Diaz-Pertini di Genova 2001. Ma a 14 anni dai trattamenti inumani e degradanti l’Italia non ha ancora introdotto nel proprio ordinamento il delitto di tortura. Abbiamo intervistato Enrico Zucca, pubblico ministero del processo alle forze di Polizia

Le violenze seguite all’irruzione delle forze dell’ordine nella scuola Diaz-Pertini di Genova nel luglio 2001 durante il G8 furono tortura. Così la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha dimostrato oggi -martedì 7 aprile- quanto fosse puntuale il giudizio che Amnesty International spese a tal proposito (“la più grave violazione dei diritti umani in un Paese occidentale dal secondo dopoguerra”), condannando l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Proibizione della tortura). Enrico Zucca, sostituto procuratore a Genova e pubblico ministero al processo per i fatti della Diaz, ha letto la sentenza (disponibile al momento in francese).
E la commenta così.
 
"Dico prima di tutto una cosa banale: questa è una sentenza prevedibile e scontata. Non è un caso che i casi precedenti citati dai giudici della Corte siano esattamente quelli che noi -come Procura- abbiamo citato fin dal giudizio di primo grado. Abbiamo portato subito la discussione a quel livello: si trattava cioè di violazione di diritti fondamentali e non di una devianza imprevista. Da questo punto di vista il nostro riferimento era obbligato, avevamo un concentrato di violazioni che sembrava più un caso di scuola. Ma se scontata era la pronuncia va detto che questa è andata anche oltre le aspettative. La Corte ha ribadito nettamente e fermamente i principi da noi ricordati fin dal primo grado, ha riconosciuto che il tempo (10 anni) impiegato per l’accertamento dei fatti non è imputabile ai pm o ai giudici che hanno dovuto invece superare numerosi ostacoli (ad esempio il boicottaggio della Polizia). Non solo: allo Stato italiano vengono rimproverati la prescrizione, i condoni e la mancata reazione adeguata a livello di pena. E il tutto si chiude con una denuncia veramente forte: l’Italia strutturalmente non ha l’armamentario adeguato per reprimere questi fatti. È un problema cioè di sistema. Ma nessuno, in queste settimane di annunciati interventi sulla prescrizione, ha mai ricordato come tra i reati che non si devono prescrivere ci sono proprio quelli relativi alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, come più volte affermato in sede di Corte europea. Di questo problema non c’è traccia in Parlamento. Il “Ce lo chiede la Corte europea” valso per la responsabilità civile dei magistrati qui non ha avuto esito. L’insieme dei problemi strutturali è quindi cogente così come lo è stata la sentenza Torregiani a proposito della vicenda carceraria. E ci si dovrebbe attendere una reazione immediata".
 
Invece la risposta politica si riassume nella proposta di legge per l’introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento. Il testo licenziato dalla commissione Giustizia della Camera è un compromesso ulteriore. Lei che ne pensa?
 
Non voglio definirlo pateracchio, diciamo pure compromesso. Penso che aver configurato la tortura come reato comune e non specifico sia stato un errore grave. Sostenere che in caso contrario le forze dell’ordine sarebbero state criminalizzate è infatti una premessa che va ribaltata anche in forza di quanto affermato più volte dalla CEDU. La storia della Polizia italiana, a differenza di quanto sostenuto dai Governi nei vari passaggi del procedimento odierno, è anche -come sappiamo noi “sovversivi”- una storia di tortura. Se non si riconosce che la tortura è un fenomeno endemico allora è come non riconoscere che la corruzione rappresenti un fenomeno della Pubblica amministrazione. Perché, mi chiedo, è un insulto apprestare strumenti che abbiano forza deterrente? Penso a un apparato sanzionatorio che risulti efficace, con pene gravi e adeguate. Questa non è una premessa contro le forze di polizia. 
 
A chi dice “meglio una cattiva legge che niente” che cosa risponde?
 
Meglio il compromesso che nulla, per carità. Rendiamoci conto però che la premessa di questo compromesso è il sintomo che non si riconosce a fondo il problema, che si vogliono chiudere gli occhi. È in contrasto con le parole chiarissime della CEDU. Cominciamo cioè con il piede sbagliato. Io non ho visto in tutti questi anni nemmeno un conato di consapevolezza o di tentativo di riformare la polizia dall’interno, non l’ho visto. Che sia forse dovuto al predominio della potente lobby politico-istituzionale di quello che Marco Preve ha chiamato il “Partito della Polizia”? Non lo so ma sono certo che mancano gli anticorpi; l’ho detto più volte, si esce dalla tortura e da Guantanamo per la ferma opposizione dei procuratori militari di fare i processi farsa utilizzando i verbali e le dichiarazioni estorte con la tortura. Qui, da noi, chi è che dice “no”?
 
Nella proposta di legge sulla tortura ora in discussione alla Camera si legge: “la sofferenza (frutto della tortura, ndr) deve essere ulteriore rispetto a quella che deriva dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. Che significa?
 
È un po’ una trappola: anche una pena legalmente inflitta può essere inumana e degradante. Non esiste un trattamento del genere legittimamente inflitto. Se ci fosse una pena o un trattamento legittimo che nello stesso tempo comporta una sofferenza fisica o mentale sarebbe contro la Costituzione e la Convenzione EDU. È un altro tributo pagato a questo compromesso e a questa volontà di non urtare il corpo compatto delle forze di polizia, che sta resistendo.
 
L’attuale presidente del Consiglio ebbe a dire nel luglio 2013 a proposito dei dirigenti della Polizia coinvolti nei fatti della Diaz che “funzionari che semplicemente firmarono verbali sono stati condannati alla interdizione dai pubblici uffici e si sono dovuto trovare altri lavori”.
 
Fu un’affermazione gravissima forse dovuta alla scarsa conoscenza dei fatti. Probabilmente è il brodo di coltura ormai comune del giudizio politico sulla vicenda che collide con l’accertamento della Cassazione, che parlò di “violenza inaudita e inusitata”. Quella “firma” citata da Renzi è in realtà una “scellerata operazione mistificatoria”, come sancì la Cassazione. La copertura della tortura, perché di questo si tratta, è grave quanto se non di più della tortura, come afferma chiaramente la CEDU. Lo si deve ricordare a Renzi tanto quanto ai governi di centro-sinistra succedutisi negli anni, e a chi ha sempre rifiutato di risarcire le vittime per veto della polizia. Ricordiamoci la beatificazione di questi comandanti da parte di certa stampa, così devota ai cacciatori di mafiosi con medaglie (ad esempio il caso dell’ex capo dello Sco -Servizio centrale operativo- della polizia Gilberto Caldarozzi, condannato per falso, nominato consulente di Finmeccanica, ndr). È un film dell’orrore che non è sentito come tale. Non ci sono orecchi. Non vedo segnali positivi. La sentenza della CEDU rischia di rimanere come il discorso di Cristo sulla montagna.

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