Esteri / Reportage
Dare un nome ai migranti morti nel viaggio verso gli Stati Uniti
Il progetto “Frontiera”, promosso dall’Equipo argentino de antropologia forense, supplisce alle lacune istituzionali. Ha portato alla creazione di banche dati condivise che aumentano le probabilità che i cadaveri vengano riconosciuti
Il cadavere di Jaime Pascual Gómez Ruíz è arrivato al suo villaggio così sfigurato che la moglie, Teresa de Jesús Jiménez Hernández, non è riuscita a riconoscerlo. Da tre mesi la donna, indigena maya tzeltal dello Stato del Chiapas, nel Sud del Messico, pellegrinava di ufficio in ufficio per chiedere alle autorità di rimpatriare il corpo di suo marito che, secondo quanto le aveva detto in una telefonata il console messicano in Arizona, era stato trovato nel deserto che divide il Paese latinoamericano dagli Stati Uniti. Jaime era partito dal Chiapas in autobus il 27 giugno 2007 con un pollero (un trafficante di persone che “accompagna” i migranti fino agli Stati Uniti e che spesso viene pagato migliaia di dollari) e altre dieci persone intenzionate ad attraversare la frontiera.
“Vado a lavorare là un anno e me ne torno con un po’ di risparmi”, disse a Teresa prima di salire su quel mezzo che avrebbe percorso più di tremila chilometri fino alla città di Altar, nello Stato messicano di Sonora, da dove il gruppo continuò il viaggio attraverso il deserto a piedi con il pollero. A causa del caldo e della disidratazione, durante il tragitto Jaime ebbe un mancamento e venne abbandonato dai suoi compagni di viaggio. Per giorni il sole bruciò la sua pelle e gli animali non risparmiarono il suo corpo, già senza vita.
Quando giunse al villaggio chiapaneco, il cadavere di Jaime non era intatto e al viso mancavano occhi e labbra. “Arrivò così… come un pollo abbrustolito, tutto bruciato”, dice Teresa che non è riuscita a riconoscere, in quel viso mutilato, i tratti dell’uomo che aveva amato per tutta la vita. Come poteva essere sicura che il corpo in quella bara, che con tanta difficoltà era riuscita a far rimpatriare, fosse realmente quello di Jaime? E se si fosse trattato di uno scambio di persona? Le autorità statunitensi non le avevano neppure mandato una foto del cadavere al momento del ritrovamento, né spedito gli oggetti che Jaime aveva con sé nel deserto: il suo documento di identità e una Bibbia su cui aveva scritto il nome di sua figlia.
L’incertezza cresceva in Teresa e la speranza di tornare ad abbracciare il marito non le dava tregua. Teresa decise quindi di chiamare l’associazione chiapaneca Voces mesoamericanas – Acción con pueblos migrantes. Un familiare le aveva detto che lavorava con degli scienziati forensi che, analizzando un campione di Dna delle sue figlie, avrebbero potuto dirle se i resti che aveva appena seppellito appartenevano realmente a suo marito. Nel 2005, l’Equipo argentino de antropologia forense (Eaaf) ha iniziato a riflettere sull’importanza di identificare i cadaveri delle persone in transito che vengono trovati nel deserto tra Messico e Stati Uniti. L’organizzazione non governativa sudamericana, che ha dato un contributo fondamentale all’esumazione di fosse comuni e all’identificazione di migliaia di desaparecidos in Paesi come Argentina, Bosnia ed Erzegovina, Angola e Kosovo, sapeva che si stava addentrando in un tema molto complesso: secondo l’associazione Movimiento migrante mesoamericano, almeno 30 migranti spariscono ogni giorno in Messico. Una parte di questi muore nel deserto, soprattutto per disidratazione, e viene portata negli obitori degli Stati meridionali degli Usa.
Non è per niente facile risalire alla loro identità e contattare le famiglie nel Paese di origine. Il gruppo di esperti argentini in antropologia forense iniziò la sua riflessione analizzando il modo in cui lavorano la polizia e il personale degli obitori in entrambi i Paesi. “Ci siamo resi conto che le autorità messicane e statunitensi non incrociano nessun tipo di informazione, e senza interscambio non si può arrivare a nessun risultato”, spiega Mercedes Doretti, direttrice dell’Eaaf per la regione Centro e Nord America. I membri dell’Equipo arrivarono quindi alla conclusione che fosse necessario creare meccanismi affinché gli obitori del Sud degli Stati Uniti, saturi di cadaveri rinvenuti nel deserto, dialogassero con le migliaia di famiglie latinoamericane che cercano un parente scomparso durante il viaggio verso Nord.
L’Eaaf ha così dato forma al progetto “Frontiera”, che ha l’ambizione di creare un sistema in grado di incrociare e confrontare i profili del Dna dei migranti trovati nel deserto, con quelli dei loro familiari. Perché questo sia possibile, l’Equipo ha promosso nei Paesi di origine -insieme ad altre organizzazioni non governative e ad alcune istituzioni- la creazione di banche dati forensi di migranti non localizzati. In Messico e nei Paesi centroamericani, l’Eaaf organizza campagne per raccogliere campioni di Dna delle persone che cercano un familiare scomparso durante il processo migratorio. La sistematizzazione di quest’informazione genetica in banche dati permette di realizzare degli incroci a tappeto. “Confrontiamo tutti i profili genetici dei migranti non localizzati che si trovano negli obitori statunitensi con quelli dei famigliari dei desaparecidos che si trovano nelle banche dati. Questo aumenta enormemente le possibilità di identificazione”, spiega Mercedes Doretti.
“Non dobbiamo arrenderci, non dobbiamo smettere di lottare fino a quando sapremo che cos’è successo ai nostri familiari” – Teresa Hernández
Prima del progetto “Frontiera”, l’analisi dei profili genetici veniva realizzata solo in alcuni casi “a uno a uno”, cioè quando esistevano indizi che portavano a intuire l’identità di un cadavere, ad esempio per la presenza di un tatuaggio. In quei casi si confrontava il Dna del corpo con quello della persona che si pensava potesse essere un suo famigliare.
El Salvador è stato il primo Paese a creare una banca dati forense, nel 2010, e presto l’hanno seguito Honduras e Guatemala. Il governo messicano non ne ha ancora creata una nazionale e ne esistono solo in due Stati del Paese: Chiapas e Oaxaca. Il progetto “Frontiera” ha finora identificato 283 migranti (dati aggiornati al novembre 2022). I loro resti sono stati rimpatriati per dare ai loro cari la possibilità di seppellirli e mettere così fine al “lutto sospeso” che attraversano i famigliari dei desaparecidos, che vivono con la speranza di poterli abbracciare di nuovo.
I risultati delle analisi del Dna del cadavere rinvenuto nel deserto sono stati notificati a Teresa de Jesús Jiménez Hernández nel dicembre del 2010. Secondo l’Equipo, esisteva un 98% di possibilità che il cadavere sfigurato che le era stato inviato dagli Stati Uniti fosse realmente quello di suo marito Jaime. “Per me e per le mie figlie è stato molto doloroso, ma cosa ci potevamo fare? Accettarlo era la nostra unica opzione”, dice Teresa. La notizia le causò dolore, ma le portò anche pace: “Tante persone hanno un familiare desaparecido, io perlomeno ho trovato Jaime e l’ho potuto seppellire”, dice la donna.
Malgrado il ritrovamento, Teresa ha deciso di non lasciare il collettivo di familiari di migranti chiapanechi desaparecidos di cui fa parte, che si chiama Junax Ko’tantic, per continuare ad aiutare le sue compagne e i suoi compagni nella ricerca dei loro parenti dispersi. Il collettivo Junax Ko’tantic riunisce una quarantina di famiglie del Chiapas che stanno cercando un parente migrante con cui hanno perso contatto. Alcuni di loro sono spariti mentre attraversavano il deserto, altri invece in regioni del Messico, fuori dal Chiapas, in cui si erano trasferiti, altri ancora hanno smesso di mandare notizie una volta arrivati negli Stati Uniti. La maggior parte delle persone che fanno parte di Junax Ko’tantic sono donne, alcune già anziane, costrette ad affrontare gli ostacoli della burocrazia messicana, l’impunità che copre la maggior parte dei casi di sparizione forzata e la paura nei confronti dei poliziotti corrotti e delle organizzazioni criminali, che spesso sono coinvolte nella sparizione dei migranti. “Non dobbiamo arrenderci, non dobbiamo smettere di lottare fino a quando sapremo cos’è successo ai nostri famigliari”, conclude Teresa.
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