Diritti / Reportage
Da Trieste si può vedere la disumanità delle carceri italiane
Anche nella casa circondariale Ernesto Mari le condizioni sono degradanti per gli oltre 250 detenuti (su 150 posti): wc a vista, materassi a terra, caldo estremo, spazi ridotti e “cimici da letto”. La sofferenza sfocia in gesti drammatici come proteste, scioperi della fame e tentativi di suicidio. E da agosto in tutto il Friuli-Venezia Giulia resteranno tre magistrati di sorveglianza invece dei sei previsti
“Siamo trattati come animali”. Urlavano così i detenuti della casa circondariale Ernesto Mari di Trieste, carcere urbano a due passi dal Tribunale. Lenzuola e materassi bruciati, danni agli oggetti e assalto all’infermeria. Una protesta, quella dell’11 luglio di quest’anno, che ha richiesto l’intervento delle forze dell’ordine. Un bilancio di cinque feriti tra scontri e gas lacrimogeni e poi la tragica morte di Zdenko Ferjancic, 48 anni, ritrovato dai compagni di cella il giorno dopo. Una morte provocata, secondo le prime ricostruzioni, da un’overdose di metadone. Depressione, bipolarismo e tossicodipendenza tratteggiano, poi, Ferjancic nel racconto del suo avvocato, ma fino a che punto il sistema carcere può non ritenersi corresponsabile per la sua morte?
Morire di carcere è infatti una costante. Solo pochi giorni prima, un suicidio nell’Istituto Sollicciano di Firenze e la morte, dalle cause incerte, di un detenuto nel carcere di Viterbo, seguiti da una rabbia esplosiva dei reclusi, espressa con modalità simili al caso triestino.
“All’origine delle proteste risiedono il caldo estremo e il numero dei reclusi in relazione alle condizioni strutturali degli istituti e di detenzione delle persone”, sottolinea Francesco Santin, referente per Antigone in Friuli-Venezia Giulia. Nelle 189 carceri italiane si registra un tasso medio di sovraffollamento del 130,6% (secondo il Report semestrale pubblicato da Antigone a luglio 2024): 61.480 detenuti nelle carceri italiane per un tetto massimo di 51.234 presenze, dice lo stesso ministero della Giustizia (anche se i posti disponibili sono 47.111).
Una condizione che non risparmia Trieste, con 257 detenuti per una capienza ufficiale di 150 persone e a cui si somma un’altra aggravante, le “cimici da letto”. “Le cimici sono un problema cronico nell’Istituto, acuito dal caldo eccessivo e indipendente dalle abitudini igieniche dei detenuti -continua Santin-. È necessaria una disinfestazione per evitare che venga inflitta una pena maggiore alle persone recluse”. Una dignità mancata per i detenuti anche per i wc a vista, i materassi a terra e gli spazi ridotti: situazioni già segnalate nei mesi precedenti alla protesta da Elisabetta Burla, Garante per i diritti dei detenuti a Trieste e Paolo Pittaro, Garante regionale Friuli-Venezia Giulia.
Condizioni inammisibili portate alla luce dagli stessi detenuti del carcere triestino con il ricorso al tribunale di sorveglianza per le condizioni detentive inumane e degradanti: nel 2022, su 99 procedimenti esauriti, 55 sono stati accolti. Questa possibilità di denuncia per i detenuti si è presentata a seguito della condanna dell’Italia, nel 2012, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La miccia di partenza è stata la sentenza Torreggiani, ossia il ricorso presentato da sette reclusi delle carceri di Busto Arsizio e Piacenza per le condizioni detentive inumane e degradanti, nella fattispecie celle triple con meno di quattro metri quadrati per detenuto.
“Una sofferenza cronica nei detenuti testimoniata anche dall’alto numero di eventi critici, -spiega Jessica Lorenzon, osservatrice per Antigone negli istituti di pena per adulti e minori-, gesti che mettono a rischio l’incolumità degli stessi detenuti o quella altrui, all’interno delle carceri, come le aggressioni al personale, i tentativi di suicidio o gli scioperi della fame”.
Drammatici, in particolare, i 58 suicidi dei detenuti dall’inizio del 2024: numero che rischia di superare il boom degli 85 nel 2022. Tracciare, però, una linea netta tra morte scelta e morte per le condizioni degradanti del carcere non è sempre così immediato. “Gli eventi critici rendono più sfumate le motivazioni dietro alla morte di una persona detenuta -sottolinea Lorenzon-. L’assunzione impropria di farmaci o i tentativi di suicidio possono essere un modo per volersi fare ascoltare o per affrontare una condizione di dolore cronico”. L’aumento delle scelte suicidarie sembra essere inoltre strettamente correlato con l’insorgenza degli eventi critici nelle carceri, come dimostra lo studio “Per un’analisi dei suicidi negli Istituti penitenziari” promosso nel 2022 da Mauro Palma, Garante nazionale fino al gennaio 2024.
Un malessere cronico che non riguarda solo i detenuti, ma tutto il personale. Ai suicidi dei detenuti si aggiungono infatti i sei avvenuti tra la polizia penitenziaria nel 2024, secondo il sindacato Uilpa. “In Italia il vero problema risiede nei dirigenti di polizia penitenziaria, presenti in numero cospicuo nell’amministrazione penitenziaria (714 unità), ma assenti nelle carceri, sfuggendo al lavoro all’interno degli istituti -aggiunge Enrico Sbriglia, coordinatore nazionale della dirigenza penitenziaria della Federazione sindacati indipendenti-. I direttori penitenziari devono quindi supplire a questa mancanza curando da soli il reparto di polizia penitenziaria”.
In altri casi, invece, la stessa magistratura è sotto organico. Come sta per avvenire dal mese di agosto in Friuli-Venezia Giulia, dove resteranno tre magistrati di sorveglianza in tutta la Regione, invece dei sei previsti, per gestire le istanze dei detenuti, inclusi i liberi sospesi. “Le carceri senza mezzi e risorse adeguati per un’esecuzione penale esterna (misure alternative, ndr) restano inutili e pericolosi contenitori di persone detenute e detenenti”, evidenzia Sbriglia.
L’auspicio vira quindi verso una modifica del sistema carcerario, a partire dalla gestione dei tassi di sovraffollamento. Ma il nuovo decreto legge, il 92 del 4 luglio 2024, in fase di conversione al Senato, non lascia ben sperare. Assente il tema delle presenze in carcere; regolamentate invece le relazioni con l’esterno.
Le telefonate di dieci minuti concesse ai detenuti, con l’approvazione della legge, passerebbero da quattro a sei al mese, ma l’istituto triestino, ad esempio, non ha mai tolto la possibilità, concessa ai reclusi durante la pandemia, di poter telefonare una volta al giorno. “I detenuti si trovano di fronte alla perdita di un diritto che pensavano di aver acquisito: un’importanza, quella della continuità con i legami familiari in carcere, sottolineata anche dallo stesso regolamento penitenziario”, aggiunge Burla.
Avvicinare il fuori al dentro è necessario poi per conoscere il carcere. Le presentazioni dei libri nell’istituto triestino prima della pandemia, in presenza dell’autore e di persone esterne, rispondevano a questa necessità. “In queste occasioni le persone fanno domande e sono curiose”, racconta la Garante. Fare rete e aprirsi alla città per sensibilizzare è l’approccio del Cantiere Carcere, progetto che da un anno vede unite realtà ecclesiali e civili sulla spinta del vescovo Enrico Trevisi. Vera Pellegrino, responsabile ufficio studi, formazione e promozione della Caritas di Trieste (nella rete del Cantiere Carcere) dice convinta che “esiste un movimento della società civile che vuole ancora costruire un bene comune”.
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