Diritti / Reportage
Cutro, una distanza incolmabile. Il reportage nel primo anniversario della strage
Alidad Shiri ha perso suo cugino, Atiqullah, che però non compare nella lista delle 94 vittime accertate dei fatti del 26 febbraio scorso: è uno degli 11 dispersi, e ciò implica un tipo particolare di dolore. Da tentare di capire e rappresentare con cura estrema. Il racconto delle commemorazioni e delle lotte dei familiari di chi non c’è più
“È incredibile, proprio come un anno fa, il giorno prima c’era sole e mare piatto, poi arrivarono vento e pioggia, le onde anche più alte di oggi, povera gente”. La signora Elisa, dietro al bancone del suo bar sul lungomare di Crotone, scuote la testa. È stato un pensiero comune a tutti i partecipanti agli eventi di commemorazione della strage di Cutro, troppo evidente la potenza simbolica dell’analogia meteorologica, come a voler aiutare a immaginare, e a cogliere l’essenza. Forse però questo non è possibile, non del tutto e non per “noi”.
Alidad Shiri, afghano di Ghazdi, 32 anni, è in Italia da 18; ha uno sguardo astuto che ti studia interrogativo sotto un ciuffo ribelle. “Io sento in maniera diversa da voi, perché io so. So cosa vuol dire salire su una nave, affidarsi a un trafficante, attraversare le montagne al confine tra Iran e Turchia, è un viaggio tra la vita e la morte, noi vediamo la morte”. L’essenza è forse nelle parole di Alidad, e sta nella distanza tra “categorie” diverse di esseri umani che non può essere colmata del tutto, nonostante gli sforzi della Rete 26 Febbraio, di Mem.med e delle altre associazioni vicine ai familiari, nemmeno in questo evento che vuole e deve svolgere diverse funzioni. Il ricordo e l’omaggio alle vittime, ovviamente, ma anche dare voce a sopravvissuti e familiari e alle loro rivendicazioni, a partire dalle promesse non mantenute del governo, come quella di far arrivare in Italia e in Europa i parenti rimasti nei Paesi d’origine.
Alidad ha perso suo cugino, Atiqullah, che però non compare nella lista delle 94 vittime accertate: è uno degli 11 dispersi, e ciò implica un tipo particolare di dolore. “Un anno terribile, io ho sofferto ogni giorno, -racconta Alidad- ho passato giorni alla Polizia scientifica ad aiutare altri familiari a identificare i propri cari, è durissima ma può consumarsi, se non trovi un corpo la tua sofferenza dura tutto il tempo della mancanza. Ad ogni chiamata di mia zia cominciavo a tremare, non potevo rispondere perché non volevo dare una risposta falsa, non potevo sapere se fosse morto o forse vivo. Ho continuato a cercare, mi chiamava in continuazione, e ancor di più mia cugina tramite social e WhatsApp”. Alidad rallenta il ritmo del racconto, in cerca delle parole giuste per dire qualcosa di troppo difficile: “Mi mandava messaggi ogni mezz’ora, ho dovuto dirle che se avesse continuato così sarei stato costretto a bloccarla, perché non ho una risposta. Le ho spiegato che se dopo un anno non ci sono notizie dev’essere morto, ma ancora oggi io e mia cugina non riusciamo a dirlo a mia zia, che non sta bene, temiamo che non ce la faccia”.
Nel pomeriggio di domenica 25 il maltempo ha raggiunto il suo apice, gli organizzatori delle Rete 26 Febbraio hanno deciso che la manifestazione si dovesse svolgere ugualmente. Per le famiglie, e perché era ed è troppo il bisogno di urlare la rabbia e l’impotenza, così come la richiesta di verità e giustizia. Sotto una pioggia sferzante il corteo ha sfilato nel centro deserto della città, in testa lo striscione dei familiari, preceduti dallo stuolo dei media con la marcia all’indietro cercando invano di proteggere dall’acqua macchine e telecamere. “Basta morti in mare! Basta morti in mare! Perché questo non accada più”.
“Nell’ufficio della Polizia scientifica ho visto delle cose terribili, -riprende il suo racconto Alidad-. Sono cresciuto in una guerra che continua da 46 anni, ho visto corpi per strada, bambini e adulti mutilati, ma non avevo mai visto così tanti corpi, i volti di bambini e donne, la bocca e gli occhi aperti. Nei primi quattro giorni non ho potuto dormire, neanche dieci minuti”. Al ritorno a Bolzano dove vive e durante tutto l’anno Alidad ha seguito un percorso di terapia psicologica. “Dovevo togliere tutti questi pesi e dolori, ma sono ferite che non riesci a eliminare del tutto, devi cucirle ma sono così sensibili che appena succede qualcosa, quando torni qui, basta un ricordo e la ferita si riapre”.
Alidad sperava che Atiqullah potesse essere tra i sei corpi recuperati e non ancora identificati, ma il test del Dna non ha trovato riscontro, “Questo mi fa veramente soffrire; aveva 17 anni, quindi non l’avevo mai incontrato di persona ma quando sua sorella mi ha informato, non riuscivo a smettere di piangere. Sono venuto qui a cercare, ogni giorno trovavano qualche corpo, sono stato alla Polizia scientifica ad aiutare altri familiari nell’identificazione, è stato così difficile. Avevo il compito di informare le famiglie attraverso videochiamate, vedevi la gente che si buttava per terra, piangendo, fossero stati vicini avrei potuto fare una carezza ma così non puoi fare nulla, terribile”.
Per i familiari delle vittime e i sopravvissuti, ritrovarsi significa rievocare il trauma, ma è anche parte del percorso di elaborazione, come spiega Lavinia Tuccimei, psicologa che dal primo giorno ha assistito i superstiti: “È un percorso molto lungo e che si muove per fasi non lineari. Si dice che non è possibile metabolizzare l’evento luttuoso prima dei 365 giorni, perché ci saranno date che ti ricorderanno quella persona, e il primo anniversario è il momento culmine di questo processo”.
Lunedì verso le 3:30 di mattina, tra 100 e 150 persone hanno raggiunto la spiaggia di Steccato di Cutro, dove ha avuto luogo la commemorazione nell’ora esatta del naufragio. Ha anche smesso di piovere, i fari delle telecamere hanno assediato i familiari raccolti attorno a un cerchio di candele, fiori e giocattoli. Poi le persone si sono spostate, in piccoli gruppi: si è sentito un urlo, una donna stava per svenire, le telecamere che accorrono, qualcuno si frappone e chiede di smettere, di fare spazio. C’è chi senza accorgersene ha calpestato un paio di giocattoli che formavano il cerchio commemorativo. Un operatore ha chiesto ad alcuni dei giovani sopravvissuti di mettersi in una determinata posizione, per essere ripresi. Loro si sono prestati, gentili, comprensivi e speranzosi che tutto questo avesse un senso.
Raccontare è necessario e va fatto, anche o forse soprattutto questa è una delle funzioni dell’evento, eppure sappiamo anche che tanta attenzione risponde a tempi e meccanismi del sistema mediatico. Nel giorno dell’anniversario, la rappresentazione del dolore di queste persone e del loro lutto è diventata una notizia che “funziona”. Domani ci sarà altro, mentre il dolore resta come il sistema che lo genera. Avrà avuto un senso questo insieme di racconti, di immagini tutte simili? Ha ragione Alidad, non sappiamo.
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