Diritti / Opinioni
Le cure negate ai migranti “fuori campo”
Sono almeno 10mila le persone che vivono in Italia in insediamenti informali e senza accesso sicuro al Servizio sanitario. Il report di MSF
“Well done, Turin!”. Così, nel 2006, il telecronista di Channel 4 commentava la cerimonia di chiusura dei XX Giochi Olimpici invernali di Torino. Io mi trovavo a Londra e fremevo di orgoglio. Sono passate tre edizioni delle Olimpiadi invernali, 12 anni, e quello che resta del villaggio olimpico, conosciuto come ex MOI perché costruito negli edifici del vecchio Mercato Ortofrutticolo all’Ingrosso, genera molto meno orgoglio. Dal 2013 vi si sono insediati alcuni nordafricani che hanno dato il via a una comunità composta ora da 1.300 persone. Anche se nel maggio 2017 è stato siglato un protocollo d’intesa tra realtà pubbliche ed enti ecclesiastici con l’obiettivo di liberare le quattro palazzine occupate e destinarle a edilizia popolare, le condizioni di vita nell’ex villaggio olimpico ex mercato ortofrutticolo sono tutt’ora molto scadenti. Il sistema di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo nel nostro Paese è limitato. C’è spazio solo per una parte di coloro che ne avrebbero diritto, anche per il basso turnover nelle strutture legate ai lunghi tempi di esame delle richieste. In particolare solo 25.281 migranti è ospitato nella rete Sprar, destinata alla gestione ordinaria dell’accoglienza. La stragrande maggioranza dei 182.863 posti previsti nel 2017 è in strutture straordinarie, i Cas.
A molti rimane solo la possibilità di trovare riparo in alloggi di fortuna ai margini della società. Sono persone che non sono mai entrate nei sistemi di accoglienza formali o che ne sono state espulse per far posto ai nuovi arrivati senza che sia stata data loro alcuna alternativa. Molti sono titolari di protezione internazionale o umanitaria, cioè aventi diritto all’asilo ma privi di un percorso di inclusione sociale.
Nelle stime fatte da MSF e pubblicate nel nuovo rapporto “Fuori campo”, tra richiedenti asilo e titolari di protezione ci sono almeno 10.000 persone che vivono in insediamenti informali e che hanno limitato o nessun accesso alle cure mediche.
L’ex MOI è uno di questi luoghi censiti da MSF nel suo rapporto. Tra i titolari di permesso di soggiorno che vi abitano, meno del 40% è risultato essere iscritto al Servizio sanitario nazionale e meno di 1 su 5 è assegnatario di un medico di famiglia, pur avendone diritto. L’iscrizione al Servizio sanitario nazionale e l’assegnazione del medico di famiglia richiedono infatti la residenza, che viene di norma revocata all’uscita dai centri di accoglienza. Le uniche possibilità per i migranti sono quindi il ricorso ai pronto soccorso, con un conseguente sovraccarico di lavoro e l’aumento di distopia culturale da parte del personale sanitario, spesso ignaro della legislazione corrente, e dell’utenza domestica. O il ricorso all’STP, un codice assegnato provvisoriamente agli irregolari presenti sul territorio nazionale per accedere alle cure essenziali, non destinato a chi sia in possesso di un regolare permesso di soggiorno. Bisogna quindi lavorare per eliminare le barriere che ostacolano l’iscrizione al Ssn, svincolandola dalla residenza anagrafica. Serve aumentare negli ospedali e nelle ASL i mediatori linguistico-culturali. È indispendabile poi maggiore omogeneità tra le Regioni, soprattutto nel garantire l’iscrizione gratuita al Ssn per i minori, anche irregolari, come previsto dalla legge, e la scelta del pediatra di base. Sono da rivedere le recenti indicazioni del ministero dell’Interno che ha previsto la presenza di medici all’interno dei Cas, disincentivando di fatto l’assegnazione del medico di base ai richiedenti asilo.
Luigi Montagnini è un medico anestesista-rianimatore. Dopo aver vissuto a Varese, Londra e Genova, oggi vive e lavora ad Alessandria, presso l’ospedale pediatrico “Cesare Arrigo”. Da diversi anni collabora con Medici Senza Frontiere.
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