Esteri / Reportage
Creativa e solidale: Budapest risponde così alle politiche di Orbán
Coworking, concerti e giardini comunitari, progetti di inclusione sociale e recupero del cibo invenduto nei mercati: le organizzazioni non governative fanno degli spazi culturali della capitale ungherese un presidio di comunità
Per chi passeggia nella capitale ungherese è facile capitare nel “ghetto”. Chiamato Józsefváros, ma noto come Ottavo distretto, il quartiere si estende su un’area di 6,85 chilometri quadrati, in cui vivono 70mila abitanti, su 1,7 milioni di Budapest. Periferico e centrale allo stesso tempo, si trova a venti minuti a piedi dalle zone più turistiche. Nel XIX secolo l’Ottavo distretto era un rione operaio con una folta presenza ebraica, poi si trasforma in bassofondo da evitare, mentre negli ultimi anni diventa anche un quartiere multietnico.
Qui l’incendiaria retorica sovranista e anti-immigrati del premier ungherese Viktor Orbán rende sempre più complicato l’operato degli spazi culturali: “Difficoltà che sono solo il sintomo di un problema più grande, la guerra del governo contro la società civile”, spiega Péter Susánszky dello spazio culturale Aurora. Aurora nasce nel 2014 da un’idea di Marom, una organizzazione non governativa (ONG) ebraica locale, e col tempo diventa uno dei punti di riferimento della scena underground budapestina: ospita concerti di musica sperimentale, spettacoli e dibattiti, inoltre al suo interno hanno la sede dodici ONG. “Offriamo molte attività comunitarie, da noi suona regolarmente una band rom i cui membri e fan vivono nel rione, è attivo un caffè linguistico per le comunità di immigrati. Esisteva un giardino comunitario, ma l’amministrazione comunale ci ha intimato di chiuderlo al pubblico”, spiega Susánszky.
Secondo Aurora l’amministrazione comunale di Józsefváros prova da anni ad ostacolarne l’operato, ma finora lo spazio culturale è sempre uscito vincitore dalle dispute giudiziarie, fino all’ultimo caso: a marzo 2019 l’associazione è costretta a chiudere il bar alle 22, in base a una direttiva che cerca di evitare la proliferazione di locali notturni, “ma visto che questo regolamento finora è stato applicato solo contro di noi, viene naturale pensare che le ragioni siano altre -riflette Susánszky, che aggiunge-: quando le autorità comunali non sono riuscite a chiuderci per le vie legali hanno provato ad acquistare il nostro edificio dal proprietario, fortunatamente senza riuscirci”. Susánszky non ha dubbi sul perché di questo accanimento: “Siamo uno spazio politico e ci schieriamo in modo militante contro l’Ungheria nazionalista e tradizionalista di Orbán”. L’attacco è anche da parte dei media pro-governativi: “Sottolineano che Marom è una ONG culturale ebraica, per questo l’accusa di essere un covo di nemici del popolo diventa ancora più inquietante”, afferma Susánszky. Gli attacchi hanno incrinato il rapporto col vicinato, soprattutto le persone anziane manifestano in modo più evidente l’antipatia verso Aurora.
Il futuro è incerto: la chiusura anticipata del bar riduce del 35 per cento le entrate, che servono ad offrire a prezzi calmierati gli spazi coworking. È stata lanciata una campagna di sottoscrizione, ma visto che il pubblico di Aurora è composto da studenti universitari e residenti della zona senza grandi risorse la situazione economica è complicata. Se dovesse arrendersi Aurora sarebbe solo l’ultimo di una lunga lista di spazi alternativi di Józsefváros costretti a chiudere: negli ultimi anni l’hanno fatto Müszi e Kék Ló, spazi dal forte spirito controculturale, e più recentemente Mindspace, che organizzava attività comunitarie all’interno del locale mercato ortofrutticolo di Rákóczi tér.
Ma Aurora ha anche qualche motivo per essere ottimista: il 13 ottobre l’opposizione di centro-sinistra è uscita vincitrice dalle elezioni municipali di Budapest. La città è divisa in 23 distretti, ognuno con un proprio sindaco, e anche nell’Ottavo distretto s’insedierà un amministratore progressista.
“Da noi suona regolarmente una band rom i cui membri e fan vivono nel rione, è attivo un caffè linguistico per le comunità di immigrati” (Péter Susánszky)
A quindici minuti a piedi dalla sede di Aurora, la cooperativa Gólya (cicogna in ungherese) sta facendo di tutto per non finire sulla stessa lista: il loro nemico si chiama gentrificazione. Nel 2013 Gólya affitta un edificio inutilizzato in una zona dell’Ottavo distretto dal grande disagio sociale e apre un caffè dalla ricchissima programmazione culturale. Gli animatori capiscono presto che i pochi edifici a un piano come il loro sono gli ultimi bastioni di un passato ormai perduto. Gólya è all’interno dei circa 22 ettari di Józsefváros destinati al progetto di sviluppo immobiliare chiamato Corvin-Szigony. “Le vecchie case vengono demolite e i terreni vengono venduti per realizzare uffici ed edifici residenziali per la classe media -spiega Franci Király di Gólya-: i residenti storici vengono spesso ricollocati in appartamenti di qualità discutibile in zone periferiche del quartiere, o ricevono indennizzi insufficienti a trovare nuove sistemazioni, per non parlare dell’effetto sul tessuto sociale”.
Gólya è molto popolare, ma l’affitto sempre più caro. Per questo motivo nel 2018 la cooperativa fa una scelta coraggiosa: diventare proprietaria del proprio spazio. Impensabile nella sede originaria, che costa un milione di euro. L’alternativa è uno stabile dismesso usato in passato da Ganz, gigante industriale ai tempi dell’Impero austroungarico, sempre nell’Ottavo distretto. “Il costo dell’operazione (acquisto, ristrutturazione) si è aggirato sui 620mila euro, in parte ricavati con un fundraising, grazie a finanziamenti di privati e a un prestito della banca etica ungherese, Magnet. Mancano ancora 120mila euro” spiega Király. Dopo un anno di ristrutturazione, in buona parte realizzata dai trenta membri della cooperativa, Gólya ha detto addio al vecchio spazio. Da ottobre 2019 è nella nuova sede: continuerà a essere un locale, ma essendo quattro volte più grande ospiterà anche un coworking, una palestra, spazi comunitari e un asilo. Secondo le parole di Király “nella nuova zona è ancora tangibile la lotta di chi vive in periferia”, il che riporta Gólya alla sua sfida iniziale, quella di portare cultura in un posto di frontiera.
A Józsefváros, ad esempio, la presenza dei senzatetto è una costante. A quest’emergenza sociale il premier Orbán risponde col pugno di ferro: dall’ottobre 2018 dormire all’aperto in Ungheria viola la Costituzione, e chi rifiuta di recarsi in un dormitorio può finire in carcere o rischia di essere inserito in un programma di lavori sociali obbligatori. Secondo le stime dell’associazione per i diritti dei senzatetto “A varos mindenkié” (La città è di tutti), però, gli ostelli cittadini hanno una capienza di 11mila posti letto, a fronte di almeno 30mila senza tetto. A Budapest una delle iniziative più originali di solidarietà coi senza fissa dimora si chiama Food Not Bombs. Ogni sabato gli attivisti si recano in due mercati e grazie alla collaborazione di una trentina di venditori ricevono frutta e ortaggi non più adatti alla vendita che trasformano in pasti caldi. Daniel fa parte del movimento da due anni e calcola che ogni anno vengono recuperate circa 7,5 tonnellate di cibo destinato alla spazzatura.
Secondo le sue stime il cibo, sempre vegetariano, è sufficiente per 120 senzatetto. Una volta pronto, il pasto viene trasportato con bici cargo e distribuito in una stazione della metro e nel cortile di un dormitorio. Uno degli obiettivi del progetto è coinvolgere nelle sessioni domenicali anche gli stessi senza tetto e dare loro la possibilità di passare una giornata in compagnia senza sentirsi disprezzati. Secondo l’attivista “partecipano anche in 5 o 6 alla volta. Gli esempi di integrazione sono tanti, ma la convivenza non è sempre facile, molti senza dimora hanno problemi mentali, di alcolismo o tossicodipendenza”. Evitare che quel cibo finisca in discarica è una delle missioni di Food Not Bombs, anche se l’aspetto fondamentale per Daniel è un altro: “Un senso di responsabilità sociale verso i più deboli dell’Ottavo distretto. Questo governo basa il consenso sulla creazione di nemici, fino a qualche anno fa erano i senza tetto, ora sono i rifugiati. Lo stigma sociale verso chi vive in strada è ancora forte, e ci vorrà tempo per riparare i danni causati da quella campagna d’odio”.
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