Ambiente / Attualità
Così la finanza e le industrie fossili stanno affossando l’Accordo di Parigi
A ridosso del quinto anniversario dell’Accordo sul clima, 18 Ong internazionali, tra cui Re:Common, lanciano il report “I 12 progetti che rischiano di distruggere il Pianeta”. E fanno i nomi di banche, assicurazioni, fondi di investimento e multinazionali che continuano ad alimentare l’espansione fossile
Dodici mega-progetti fossili, attualmente in fase di sviluppo, che se venissero realizzati causerebbero il rilascio in atmosfera di 175 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Un volume di CO2 sufficiente a esaurire metà del budget di carbonio rimanente per contenere l’aumento delle temperature entro 1.5 ºC. A rivelarlo è il rapporto “Five years lost. How finance is blowing Paris carbon budget” realizzato da 18 Ong internazionali, tra cui l’italiana Re:Common, pubblicato il 10 dicembre 2020 in occasione del quinto anniversario dell’Accordo di Parigi sul clima. Lo studio prende in esame 12 progetti relativi allo sfruttamento di fonti fossili in tutto il mondo e analizza gli impatti che causerebbero sull’ambiente, il clima e le comunità locali.
Nella lista ci sono, tra gli altri, il progetto per l’estrazione di gas in Mozambico, guidato da Eni e dalla francese Total, e nella regione di Vaca Muerta in Argentina, l’espansione delle miniere di carbone in India e nelle Filippine e le trivellazioni per l’estrazione del petrolio nel Mar Glaciale Artico. Per ciascuno dei casi presentati sono analizzati gli istituti finanziari, le compagnie assicurative e le banche che stanno supportando le major oil responsabili dei progetti come Eni, ExxonMobil, BP, Total, Shell, Chevron e Petrobras.
In riferimento ai progetti riportati, l’indagine mostra che da gennaio 2016, dopo l’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi, ad agosto 2020 le banche hanno erogato prestiti per un valore di 1,6mila miliardi di dollari e hanno investito in titoli e quote di capitale delle 133 compagnie, coinvolte nei progetti estrattivi, per un valore di 1,1mila di miliardi di dollari.
I principali investitori provengono dagli Stati Uniti e sono la società BlackRock (110 miliardi di dollari), Vanguard (104 miliardi di dollari), State Street (50,8 miliardi di dollari) e Capital Group (48,4 miliardi di dollari).
Quanto alle banche ci sono Bank of America e JPMorgan Chase (295 miliardi di dollari) e le europee Barclays (66,4 miliardi di dollari), HSBC (55,2 miliardi di dollari), BNP Paribas (52,7 miliardi di dollari) e Deutsche Bank.
Tra le italiane, Intesa Sanpaolo e Unicredit complessivamente hanno finanziato le società fossili che guidano i 12 progetti, in particolare Eni, con 30 miliardi di dollari. Non solo. Gli autori del rapporto sottolineano il ruolo ricoperto dalla finanza pubblica nell’industria fossile. I finanziamenti da parte di istituti come le Agenzie di credito all’esportazione -tra cui l’italiana Sace, proprietà di Cassa depositi e prestiti, che garantisce Eni- e le banche multilaterali di sviluppo, come la Banca mondiale, possono produrre l’effetto di diminuire la percezione del rischio e aumentare gli investimenti da parte di privati.
Tra i casi più rilevanti inclusi in “Five years old” si colloca l’espansione dell’industria del gas naturale in Mozambico, al largo delle coste di Capo Delgado, guidata da Eni, dalla francese Total e dalla statunitense ExxonMobil. I progetti estrattivi nei giacimenti di Coral, Mamba, Golfinho et Atum hanno ottenuto investimenti per 60 miliardi di dollari, un cifra quattro volte superiore il prodotto interno lordo del Paese. I principali finanziamenti provengono dalle banche Citigroup (25,038 milioni di dollari), Bank of America (21,498 milioni di dollari) e JPMorgan Chase (20,883 milioni di dollari). Per lasciare spazio agli impianti collocati sulla terra ferma, 677 famiglie sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni e 1.049 nuclei familiari hanno perso le loro terre. Secondo quanto calcolato nel rapporto, gli impianti produrrebbero 11,9 miliardi di tonnellate di CO2.
Tra le compagnie italiane elencate c’è anche Edison. La società, proprietà della francese Électricité de France (EDF) che è la maggiore azienda produttrice e distributrice di energia in Francia, fa parte del consorzio IGI Poseidon SA, joint venture con Depa, la compagnia statale greca del gas. Il consorzio è coinvolto nel progetto del gasdotto EastMed che dovrebbe fornire ai mercati comunitari circa 10 miliardi di metri cubi di gas annui. Ancora in fase di costruzione, se verrà completato avrà un’estensione di 1.900 chilometri di cui 1.300 offshore per un costo di cinque miliardi di euro. Il gas sarebbe estratto in un’area del Mediterraneo orientale vicina alle coste della Siria, Libano ed Egitto, dove si trova una delle più grandi riserve al mondo di idrocarburi. Sono circa 3,5mila miliardi di metri cubi di gas naturale di cui la metà è gestita da alcune delle principali compagnie petrolifere mondiali tra cui Eni, Total e Shell.
L’utilizzo del gasdotto, secondo quanto si legge nel rapporto, comporterebbe l’immissione in atmosfera di 3,3 miliardi di tonnellate di CO2. Nonostante gli impatti sull’ambiente EsatMed è stato definito strategico dalla Commissione europea che lo ha inserito nell’elenco dei progetti di interesse comune, decisione che potrebbe renderlo il destinatario di fondi provenienti dalla Banca europea per gli investimenti (BEI) e dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (EBRD). Il progetto ha già ricevuto un finanziamento da 36,5 milioni di euro dalla stessa Commissione.
Uno dei casi più significativi, analizzato nel rapporto, è relativo alla scoperta di un giacimento di petrolio a 120 miglia a Nord-Est dalle coste del Suriname in America meridionale dove, secondo le stime al ribasso dell’istituto scientifico statunitense U.S. Geological Survey, si potrebbe arrivare a ottenere almeno 13,6 miliardi di barili di petrolio. Sebbene le attività di estrazione non siano ancora iniziate, la scoperta nel 2020 di tre ulteriori giacimenti nel “Blocco 58”, che permetterebbero di avere 450mila barili di petrolio al giorno, ha attirato l’attenzione delle major oil tra cui ExxonMobil.
Se gli impianti venissero messi in funzione, si calcola una produzione di CO2 pari a 5,9 miliardi di tonnellate oltre all’impatto sull’ecosistema del Paese che già risente delle conseguenze del cambiamento climatico.
Un recente studio pubblicato su Energy Policy ha mostrato come le attività di estrazione, che devono raggiungere almeno cinquemila metri di profondità, comporterebbero seri rischi di incidenti e fuoriuscite di petrolio. Nel caso del bacino Guyana-Suriname, una fuoriuscita avrebbe conseguenze anche sui Paesi vicini come i Caraibi. Nel 2019 la Banca Mondiale aveva approvato nel Paese un finanziamento dal valore di 23 milioni di dollari finalizzato a sviluppare le attività estrattive, comprese quelle di petrolio e gas. Sebbene non sia ancora chiaro quale ruolo ricoprirà nei nuovi progetti estrattivi, il precedente impegno dell’istituto internazionale è indice di un chiaro modo di operare. “Finché la Banca Mondiale continuerà a sostenere l’industria del petrolio -scrivono gli autori del rapporto- qualunque promessa sulla sua responsabilità climatica sarà vuota di significato”.
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