Ambiente / Attualità
Contributi volontari e meccanismi di “scambio”: l’agenda sul clima in vista della Cop26
Concluso il vertice di Napoli dei ministri dell’Ambiente del G20, l’attenzione si sposta sulla conferenza di Glasgow in programma da fine ottobre. Uno dei temi che sarà sul tavolo dei negoziati è quello della definizione dei meccanismi in base ai quali i Paesi possono “scambiarsi” le riduzioni di gas climalteranti
A poco più di tre mesi dall’inizio della Cop26 (in programma dal 31 ottobre a Glasgow) i ministri dell’Ambiente dei Paesi del G20 riuniti a Napoli non sono riusciti a trovare un accordo comune su un punto cruciale dell’agenda per contrastare gli effetti del cambiamento climatico: l’eliminazione del carbone per la produzione di energia entro il 2025 non compare infatti nel documento finale. “Spesso le Cop o i vertici del G20 vengono caricati di aspettative superiori rispetto al reale tema del dibattito -avverte però Stefano Caserini, professore di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano-. Anche in occasione della Cop 26 in programma a Glasgow non potranno esserci annunci clamorosi: l’Unione europea ha già annunciato il proprio Nationally determined contributions (Ndc, ovvero gli obiettivi volontari di riduzione delle emissioni climalteranti, ndr). L’Ue ha fissato la riduzione nel 2030 del 55% (rispetto al 1990); anche il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha già rilanciato la quota fissata dal suo Paese (-50% rispetto al 2005) quando ha ‘riportato’ gli Usa nell’Accordo di Parigi, ma potrebbe fare di più. Invece chi si aspetta ulteriori rilanci per l’Unione europea è fuori strada”.
Gli Ndc, ovvero i “contributi” elaborati dai singoli Paesi, vengono aggiornati ogni cinque anni e ogni nuovo piano deve essere più ambizioso di quello precedente. “Quello che non è ancora chiaro è quali saranno i nuovi obiettivi di Paesi come India e Cina rispetto a quelli del 2015 -spiega Caserini-. E il G20 che si è appena concluso è stato un momento in cui la diplomazia si è messa al lavoro per spingere i Paesi che non hanno ancora annunciato i loro Ndc a farlo”.
La piattaforma “Climate Action Tracker”, che monitora l’andamento degli Ndc in 36 Paesi e fornisce un’analisi dettagliata su quanto sia migliorativo ogni obiettivo aggiornato e quanto sia allineato agli obiettivi dell’Accordo di Parigi, ha bollato come “Altamente insufficienti” gli obiettivi annunciati nel dicembre 2020 dal presidente cinese Xi Jinping al “Climate ambition summit”, che però deve ancora presentare ufficialmente l’Ndc per il 2020-2021.
Stando alla fotografia scattata dal “Climate Action Tracker” ci sono poi altri otto Paesi che non stanno intraprendendo azioni ulteriori per contrastare il cambiamento climatico. Paesi in cui l’obiettivo aggiornato è nominalmente più forte, ma non porta a una reale riduzione aggiuntiva -si legge sul sito del Climate Action Tracker- e che hanno aumentato l’ambizione dell’obiettivo di una quantità marginale. Nella lista figurano Australia (che ha presentato lo stesso obiettivo del piano precedente), la Nuova Zelanda, la Federazione Russa (i cui obiettivi sono stati valutati come “Altamente insufficienti”) e il Brasile che nonostante l’aumento della deforestazione e degli incendi che hanno devastato il Paese ha presentato un Ndc “che indebolisce i già insufficienti obiettivi fissati per il 2025 e il 2030”, sottolinea Climate Action Tracker.
Allo stato attuale, se tutti i Paesi rispetteranno gli obiettivi fissati con gli Ndc fissati sarà possibile “limitare” l’aumento delle temperature globali a 2,7-2,8 gradi rispetto al periodo pre-industriale. “Ma saremo comunque molto al di sopra rispetto agli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi -sottolinea Caserini-. Il dato positivo è che con questi impegni ci siamo staccati dalla previsione che fissava un aumento a 4 gradi nello scenario del business as usual. Ma c’è un’incognita importante: molti Stati hanno già iniziato a varare i pacchetti legislativi necessari per mettersi in linea rispetto agli obiettivi fissati dagli Ndc. Ma non tutti. E questa è una variabile da monitorare attentamente”.
Il tema dei Nationally determined contributions è strettamente collegato a quello del cosiddetto “Articolo 6” degli Accordi di Parigi e che prevede la possibilità di ampie forme di collaborazioni tra gli Stati che hanno ratificato l’Accordo. “È stato il principale insuccesso della Cop di Madrid -spiega Caserini- quello che mi aspetto Glasgow è che si arrivi a una definizione del meccanismo in base al quale i Paesi possono ‘scambiarsi’ le riduzioni di CO2 calcolando come proprie riduzioni gli interventi di riduzione effettuate in un altro Paese grazie ai propri finanziamenti, Paesi meno dotati di tecnologie adatte a ridurre le emissioni”.
In altre parole, se in futuro l’Unione europea volesse far crescere il proprio Ndc dall’attuale 55% al 60% potrebbe intervenire nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo per ottenere lì una riduzione del 5% delle emissioni di CO2 e di altri gas climalteranti (peraltro a un costo minore rispetto a quello necessario per ottenere lo stesso risultato nel Vecchio Continente) e aggiungere quel risultato al proprio contributo nazionale. “Dal punto di vista del Pianeta non importa dove vengono fatte queste riduzioni -sottolinea Caserini-. Lo scopo di questi meccanismi è favorire la riduzione delle emissioni dove è più economicamente conveniente e, al tempo stesso, favorire il trasferimento tecnologico tra i diversi Paesi. E c’è una grande spinta da parte dei Paesi in via di sviluppo per l’implementazione di quanto previsto dall’Articolo 6”.
Resta ancora molto lavoro da fare per invertire il trend delle emissioni globali gas climalteranti. I dati di un report pubblicato dal centro di ricerca e analisi Bloomberg NEF, ad esempio, aiutano a comprendere quanta sia la strada ancora da fare per “uscire” dal carbone. Tra il 2015 e il 2019, infatti, i governi dei Paesi del G20 hanno elargito 3.300 miliardi di dollari sotto forma di sussidi diretti all’industria fossile (carbone, petrolio e gas). Una somma che, ai prezzi attuali, potrebbe invece finanziare l’installazione di 4.232 GW di nuovi impianti solari. “Probabilmente la cifra dei sussidi è sottostimata, considerando i diversi livelli di trasparenza dei vari Paesi riguardo a questi finanziamenti”, si legge nel report. Solo nel 2019 la cifra spesa dai venti Paesi più industrializzati per sostenere il comparto dei combustibili fossili ha raggiunto i 636 miliardi di dollari, in calo di appena il 10% rispetto al 2015, anno degli Accordi di Parigi. Sette Paesi hanno addirittura aumentato il sostegno economico ai combustibili fossili tra il 2015 e il 2019.
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