Ambiente / Opinioni
È meglio cambiare i tempi piuttosto che cambiare il clima
La dimensione delle sfide in gioco è enorme, da far tremare le vene ai polsi. E forse siamo ormai in ritardo per limitare in maniera consistente i gravi effetti del cambiamento climatico. Ma una sola cosa è certa: non fare nulla porterà a conseguenze ancora più catastrofiche e a costi solo lontanamente immaginabili. Rimbocchiamoci le maniche. Il commento di Gianluca Ruggieri
“La gioventù di tutto il mondo ha iniziato a manifestare con continuità a favore della protezione del clima e di quant’altro sta alla base del benessere umano. […] Le loro preoccupazioni sono giustificate e supportate dalle migliori ricerche scientifiche disponibili. Le misure attualmente previste a protezione del clima e della biosfera sono profondamente inadeguate”. Non usano mezzi termini gli oltre 3.000 scienziati (i cui nomi occupano oltre 50 pagine di testo) chiamati a raccolta da alcuni dei più importanti climatologi per firmare una lettera pubblicata da Science (una delle più prestigiose riviste scientifiche internazionali) nel numero del 12 aprile scorso. E questo dovrebbe accontentare anche il più ostinato degli opinionisti.
“Concerns of young protesters are justified” (le preoccupazioni dei giovani manifestanti sono giustificate) dicono in coro proprio quelli che da decenni provano in ogni modo a spiegare i rischi e i costi collegati all’inazione sui cambiamenti climatici e sull’estinzione di massa attualmente in corso. I giovani promotori del movimento dei Fridays For Future non sono quindi degli ingenui idealisti, ma sono dei sinceri realisti che, come facevano i loro nonni, domandano l’impossibile. Chiedono che un intero modello di sviluppo sia messo in discussione e venga ridefinito dalle fondamenta. Condizione necessaria a raggiungere l’obiettivo di limitare l’aumento delle temperature medie sulla terra al di sotto di 1,5° come suggerisce il testo dell’accordo di Parigi.
Per fare questo serve dimezzare le emissioni di gas climalteranti ogni dieci anni, in modo che in trent’anni si arrivi a un ottavo dei livelli attuali, come non si stanca di ricordare Stefano Caserini. Proprio con Stefano, con Antonello Pasini, Francesca Ventura e Mario Salomone ho avuto l’onore di introdurre la prima Assemblea Nazionale di Fridays For Future che si è svolta a Milano il 12 e 13 Aprile scorsi. Nella serata di venerdì 12 abbiamo infatti provato a delineare le principali urgenze attuali e le possibilità di azione che ancora rimangono aperte. Nella giornata di sabato invece 500 rappresentanti di oltre 100 gruppi cittadini hanno discusso di come portare avanti la lotta nei prossimi mesi. Il movimento sta cercando di darsi alcuni obiettivi definiti comuni, lasciando che poi ogni gruppo possa organizzarsi localmente come meglio crede. La vera sfida è tenere assieme la radicalità dell’azione con la trasversalità della partecipazione che finora è stata la chiave del successo degli scioperi del venerdì. C’è già chi, come Luca Mercalli, riconoscendo il sostanziale vuoto politico in Italia su questi temi pensa che in un futuro non molto lontano questo movimento possa acquisire una dimensione anche elettorale.
Personalmente lascio ai protagonisti del movimento scegliere le forme e i tempi del loro impegno. Io mi metto a disposizione, per quello che posso, ricordando che nella storia dell’avanzamento dei diritti le conquiste reali si sono ottenute quando le lotte sono state portate aventi direttamente da chi ne aveva titolo. È successo con i movimenti operai fin dall’800, con quelli per i diritti civili, con quelli femministi. Sono i giovani quelli che hanno più da perdere dall’inazione delle attuali classi dirigenti e sono i giovani quelli che possono vincere la battaglia. Una battaglia che è prima di tutto una battaglia di giustizia, una giustizia intergenerazionale, internazionale e interclassista. Sono sempre gli scienziati del clima infatti che ci ricordano che superare i 2°C di surriscaldamento porterebbe ad “aggravare le attuali ineguaglianze globali.” E che “considerando che i paesi industrializzati hanno prodotto più emissioni ottenendone un maggior beneficio, hanno una responsabilità etica nel realizzare la transizione più velocemente del resto del mondo. […] Una distribuzione socialmente equa dei costi e dei benefici dell’azione sul clima richiede una specifica attenzione ma è contemporaneamente possibile ed essenziale.”
La dimensione delle sfide in gioco è enorme, da far tremare le vene ai polsi. E forse siamo ormai in ritardo per limitare in maniera consistente i gravi effetti del cambiamento climatico. Ma una sola cosa è certa: non fare nulla porterà a conseguenze ancora più catastrofiche e a costi solo lontanamente immaginabili. Rimbocchiamoci le maniche, i tempi stanno per cambiare.
© riproduzione riservata