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Dal clima al welfare, ecco la posta in gioco quando parliamo di Europa

Analisi dell’operato dell’Unione in vista del voto per il Parlamento di fine maggio. Luci, ombre e ancora tanto lavoro da fare

Tratto da Altreconomia 214 — Aprile 2019
Un’immagine dall’alto del Parlamento Europeo flickr.com/photos/european_parliament

Il Parlamento europeo è il primo parlamento transnazionale della storia dell’umanità. Le prossime consultazioni di fine maggio, per eleggerne i componenti, costituiranno la seconda chiamata democratica del Pianeta per numero di elettori, seconda solo alle elezioni indiane. Abbiamo messo in fila alcuni dei principali temi che dalle istituzioni europee dipendono, per comprendere quanto è stato fatto, quanto c’è ancora da fare e qual è la posta in gioco.

Clima, abbiamo un problema

Tra i lasciti più significativi dell’uscente Commissione europea spicca la “Strategia a lungo termine per il 2050”, pubblicata sotto forma di “comunicazione” al Parlamento e al Consiglio il 28 novembre 2018. Il “cambiamento del clima” è riconosciuto come un “problema che desta seria preoccupazione tra i cittadini europei”, qualcosa che sta “ridisegnando il mondo e amplificando i rischi d’instabilità in tutte le sue forme”. “Lo scorso anno -scrive la Commissione riferendosi al 2017- le catastrofi legate alle condizioni meteorologiche hanno causato danni economici per la cifra record di 283 miliardi di euro ed entro il 2100 potrebbero colpire circa due terzi della popolazione europea, rispetto all’attuale 5%: ad esempio, i danni annuali causati dagli straripamenti dei fiumi in Europa, che oggi ammontano a 5 miliardi di euro, potrebbero salire a 112 miliardi; il 16% dell’attuale zona climatica del Mediterraneo potrebbe divenire arida entro la fine del secolo e in vari Paesi dell’Europa meridionale la produttività del lavoro all’aperto potrebbe diminuire di circa il 10-15% rispetto ai livelli odierni”. Per Stefano Caserini, docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano, si tratta di un documento fondamentale per l’Europa di oggi e di domani. “Ritroviamo il rilancio dell’impegno rispetto all’Accordo di Parigi della riduzione di almeno il 40% delle emissioni dell’Unione entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990”, con la via tracciata di una “economia a zero emissioni nette” articolata in sette componenti strategiche (efficienza energetica, energie rinnovabili e decarbonizzazione, mobilità pulita, economia circolare, “interconnessioni adeguate e intelligenti”, pozzi di assorbimento, cattura e stoccaggio del carbonio). Non è la prima volta che l’Unione europea alza l’asticella. E che lo fa aiutando anche un Paese in ritardo come l’Italia. “Se non ci fosse stata l’Ue -spiega Caserini- la nostra legislazione ambientale sarebbe molto più arretrata. Abbiamo di fatto dovuto recepire delle normative sull’inquinamento dell’aria (come la direttiva sulla prevenzione controllata dell’inquinamento), sull’efficienza energetica, sui cambiamenti climatici che erano molto più avanzate del livello di consapevolezza e di volontà politica della nostra classe dirigente. E questo vale in particolare sul cambiamento climatico. Il mondo industriale italiano ha subìto il Protocollo di Kyoto (1997), non ci ha creduto, in parte ci ha anche scommesso contro. L’Europa invece è stata dieci anni più avanti dell’Italia sulle politiche sul clima. Penso anche alle azioni fatte sui gas lesivi da ozono stratosferico. Naturalmente ha fatto anche tanti sbagli nel non preoccuparsi realmente di come a livello locale queste azioni dovessero essere implementate”. Il pacchetto clima-energia “20-20-20” (direttiva 2009/29/CE) ha giocato un altro ruolo importantissimo per rilanciare la centralità delle energie rinnovabili: su scala europea, nel 2005, queste rappresentavano il 9% dell’energia finale consumata e oggi sono a quota 17%. Ne ha beneficiato anche l’Italia, che ha sostanzialmente raddoppiato la quota di energia prodotta da rinnovabili in poco tempo proprio perché obbligata dall’Europa (vedi grafico).

L’economia circolare europea

Sembra un paradosso, ma la stessa Unione che nel 2016 produceva 2.533 milioni di tonnellate di rifiuti (riciclati al 37,8%) -il quantitativo più alto registrato tra il 2004 e 2016 da Eurostat- si trova oggi nel pieno della transizione verso un’economia circolare: un ambito nel quale la Commissione ha investito oltre 10 miliardi di euro di finanziamenti pubblici dal 2016 al 2020. Il secondo pacchetto sull’economia circolare del 2018 (circulareconomy.europa.eu) fa seguito alla prima iniziativa avviata dalla Commissione nel 2015, che iniziava ad affrontare il ciclo di vita dei prodotti in un’ottica sostenibile, dettando anche nuove regole in materia di rifiuti, per promuovere una crescita virtuosa e creare nuovi posti di lavoro (4 milioni nel 2016, +6% dal 2012). Una visione politica che ha aperto anche nuove opportunità commerciali in attività legate al riuso, al riciclo e alla riparazione, che hanno generato quasi 147 miliardi di euro di valore aggiunto nel 2017, a fronte di 17,5 miliardi di investimenti. Dopo aver affrontato il problema dei sacchetti di plastica nel 2015 -il 72% degli europei dice di averne ridotto l’uso da allora-, oggi si è al lavoro sulla strategia sulla plastica nell’economia circolare. Alla fine del 2018 è stata approvata la direttiva sulla plastica monouso e gli attrezzi da pesca, per prevenire il problema dei rifiuti marini concentrandosi sui dieci prodotti di plastica che rappresentano il 70% della spazzatura sulle spiagge europee. È una piccola rivoluzione, che vieta l’usa e getta di plastica quando sul mercato esistono alternative facilmente disponibili e a prezzi accessibili, come nel caso dei cotton fiocc, le posate, i piatti o le cannucce. Ma le pratiche riguardano anche i produttori, che contribuiranno a coprire i costi della gestione dei rifiuti e avranno degli incentivi per sviluppare alternative meno inquinanti, e la sensibilizzazione dei consumatori. Entro il 2030, tutti gli imballaggi in plastica dovranno essere riciclabili e l’Ue punta ad arrivare al riciclaggio del 65% dei rifiuti urbani entro il 2035 e del 70% degli imballaggi entro il 2030.

Una giovane manifestante a Berlino durante lo sciopero globale della scuola per il clima del 15 marzo 2019 – © 350.org

L’Ue in campo (agricolo)

In un’Europa che nel 2017 dedicava il 7% dei terreni all’agricoltura biologica (il 70% in più rispetto al 2009) e vendeva al dettaglio 34,3 miliardi di euro di prodotti bio, il 1° gennaio 2021 entrerà in vigore il nuovo regolamento 2018/848 sulla produzione biologica e l’etichettatura dei prodotti. Che porterà una novità positiva: la possibilità per gli agricoltori di usare e commercializzare le “popolazioni” di semi. “La deroga della Commissione del 2014 sulle popolazioni, rinnovata nel 2018, è stata una novità assoluta nel sistema legislativo sementiero dell’Unione ed è tutto ciò che rimane del processo di riforma concluso con un nulla di fatto nel 2013”, spiega Riccardo Bocci di Rete Semi Rurali. Secondo Bocci “questo Parlamento non ha ereditato la visione costruttiva che c’era stata fino al 2014 sul tema delle risorse genetiche”. Le “azioni preparatorie” (geneticresources.eu) che erano state predisposte con l’obiettivo di “migliorare la comunicazione, lo scambio di conoscenze e la creazione di reti tra i soggetti interessati alle attività di conservazione delle risorse genetiche in agricoltura” e di diffondere delle buone pratiche per la tutela delle razze e delle varietà a rischio nei 28 Stati membri non hanno avuto seguito. E mentre prevale ancora un’idea “museale” di biodiversità, senza il coinvolgimento reale degli agricoltori, un sostegno alla diversità colturale e ai sistemi alimentari locali è venuto invece dai progetti del quadro europeo “Horizon 2020”, dedicato alla ricerca e l’innovazione, che ha messo a disposizione quasi 80 miliardi di euro di finanziamenti dal 2014 e fino al 2020. “I finanziamenti dei progetti sostituiscono l’investimento politico che manca, aumentando le differenze regionali nell’accesso ai fondi”, osserva Bocci.

© diversifood

Tra le direttive europee più importanti in materia di ambiente c’è la 42 del 2001 sulla valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente, o “valutazione ambientale strategica” (VAS), recepita dall’Italia nel 2007. Secondo Paolo Pileri, docente di pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano, il testo della direttiva era formalmente perfetto ma caratterizzato da troppi varchi che in Italia sono stati sfruttati per “disattenderla senza incorrere nelle sanzioni”.

Lunga vita al Vecchio continente

L’Europa deve affrontare una nuova urgenza: la sfida della longevità. L’attesa di vita alla nascita è aumentata di 2,1 anni nell’ultimo decennio, arrivando a una media di 80,6 anni. “L’invecchiamento della popolazione europea è una delle sfide più significative sul piano della salute e proprio mentre la domanda di servizi sanitari cresce, assistiamo alla progressiva perdita di risorse umane sanitarie”, osserva Nicoletta Dentico, vicepresidente della Fondazione Finanza Etica e già direttrice di Medici Senza Frontiere in Italia. Secondo le previsioni, infatti, tra il 2017 e il 2020 si perderanno 60mila medici all’anno, il 3,2% della forza medica dell’Unione, soprattutto perché i pensionati non saranno sostituiti. Esemplificativo è l’esposizione all’inquinamento atmosferico, la più importante causa ambientale di morte prematura nell’Unione. I recenti dati della European Environment Agency indicano che l’esposizione al PM2,5 è responsabile di quasi 400mila decessi prematuri all’anno a causa delle PM 2,5 e 76mila dovuti al diossido di azoto. E sono le fasce deboli -anziani, bambini e le persone già in cattive condizioni di salute- che tendono a essere maggiormente colpite dai rischi per la salute ambientale.

© OMS

Le 28 bandiere della coesione sociale

A proposito di welfare e di politiche sociali, l’Unione europea ricopre un ruolo più defilato. Michele Raitano, professore di Politica economica all’Università di Roma “La Sapienza” e membro del comitato scientifico dell’Osservatorio internazionale per la coesione e l’inclusione sociale (Ocis), riporta le lancette indietro fino ai primi anni Duemila. “Nel 2000, con la Strategia di Lisbona, la Commissione europea tentò di rafforzare moltissimo il lato sociale dell’Unione, partendo dall’idea delle ‘tre gambe’: crescita, mobilità e, appunto, coesione sociale. Quest’ultima aveva un ruolo assolutamente paritario rispetto agli indicatori di crescita e di competitività. Da quel momento in poi -spiega Raitano- si affermò l’idea che la Commissione dovesse muoversi sul lato del welfare in modo ‘buono’, nel senso cioè di suggerire le buone pratiche ai vari Paesi. Pur lasciando la responsabilità esclusiva ai singoli Stati c’era l’idea di un indirizzo generale attraverso il metodo del coordinamento aperto”. Poi però è successo qualcosa. “Con la crisi economica del 2008 il lato della coesione sociale, archiviata la citata retorica delle tre gambe, è finito in secondo piano. Il primo problema è diventato quello delle misure fiscali e della stabilizzazione dei bilanci pubblici. Nonostante questo, negli ultimi anni si è cercato di recuperare il ruolo dell’Unione europea, penso alla ‘Strategia Europa 2020’ o l’identificazione del ‘Pilastro europeo dei diritti sociali’, non tanto e non solo sulla coesione sociale in quanto tale ma guardando soprattutto a quello che succede agli ultimi, agli esclusi, ai ‘poveri’. E questo ha prodotto un’enfasi nuova rispetto alla lotta alla povertà. Se vogliamo ritrovare degli effetti positivi rispetto a questa enfasi, nonostante quello che si dice oggi in Italia, possiamo individuare il processo partito con il Reddito di inclusione (Rei). Un’iniziativa partita nel 2018 su indicazioni molto forti e pressanti da parte della Commissione”. Raitano non elude i limiti mostrati dall’Unione, in particolare rispetto alla coesione sociale “tra” i Paesi e non soltanto al loro interno. “Rimanendo nell’area euro -chiarisce l’accademico- ci sono passi avanti da fare. Penso all’idea della condivisione di una parte dei bilanci nazionali, per evitare rischi, shock e difficoltà. Una sorta di ammortizzatore sociale o sussidio di disoccupazione europeo, qualcosa che negli anni è affiorato più volte ma che è rimasto lettera morta”.

“In assenza di un quadro di riferimento specifico sul suolo -spiega l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA, 2018)- a livello europeo alcune politiche già formulano condizioni per un corretto uso del suolo”. Al netto della Politica Agricola Comunitaria (PAC), “si affermeranno nei prossimi anni” iniziative come il ‘no-net-landtake’ (azzeramento del consumo di suolo netto) della Commissione Europea entro il 2050, il nuovo regolamento europeo sullo stoccaggio del carbonio, gli obiettivi sull’energia rinnovabile, la rete Natura 2000, la direttiva quadro delle acque (WFD) e la strategia per la biodiversità 2020.

I labili confini dell’Unione

In materia di immigrazione e protezione internazionale, nel novembre 2017 il Parlamento europeo ha approvato un’innovativa proposta di riforma del Regolamento Dublino. Due gli elementi fondamentali: il superamento del criterio in base al quale l’esame delle domande d’asilo spetta al Paese d’ingresso (a favore della distribuzione obbligatoria in tutti i Paesi della Ue) e la necessità di tenere conto, nella fase di distribuzione, di “legami significativi” dei richiedenti asilo con uno specifico Paese dell’Unione. “Si tratta di un testo innovativo che purtroppo non è stato tradotto in realtà: non si è nemmeno arrivati alla fase di mediazione con il Consiglio -sottolinea Gianfranco Schiavone, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi, asgi.it)-. Sul piano normativo la catastrofe è totale”. Sempre dal Parlamento è arrivata, nel dicembre 2018, una richiesta alla Commissione europea di presentare una proposta legislativa che istituisca un visto umanitario europeo. Un provvedimento che permetterebbe di ridurre il numero di vittime lungo le rotte migratorie verso l’Europa. Per contro, dal settembre 2016 Frontex (l’agenzia di controllo delle frontiere esterne dell’Unione Europea, frontex.europa.eu) ha assunto il ruolo di Guardia costiera europea e ha visto incrementare sia il budget a disposizione (dai 143 milioni di euro del 2015 ai 281 milioni per il 2017) sia il personale (obiettivo: 10mila unità entro il 2020) al fine di sostenere gli Stati membri nelle procedure di frontiera -compresa l’intercettazione dei richiedenti asilo- e nelle operazioni di rimpatrio. Strettamente correlato al tema delle migrazioni c’è quello della cooperazione: l’Ue e i suoi stati membri sono tra i maggiori fornitori a livello mondiale di aiuti pubblici allo sviluppo (oltre 72 miliardi nel 2017, -4% rispetto al 2016). “L’Europa ha svolto in questi anni un ruolo di traino, sia sugli accordi di Parigi per i clima, sia sull’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile -sottolinea Francesco Petrelli, portavoce di Concord Italia-. Il nuovo Consenso europeo, approvato nel 2017 dopo due anni di lavori, definisce gli obiettivi che guideranno l’approccio della cooperazione europea nei prossimi 10 anni”. E per il bilancio 2021-2027 della Ue la Commissione europea ha proposto un budget di 89,2 miliardi di euro. Non mancano però alcuni elementi critici, a partire dall’uso “distorto” dei fondi della cooperazione allo sviluppo per arginare i flussi migratori. È il caso, ad esempio, del “Trust Fund” per l’Africa, istituito nel 2015 al vertice euro-africano de La Valletta. Grazie a una dotazione di circa 4 miliardi di euro ha come obiettivo quello ambiguo di “affrontare le cause profonde delle migrazioni irregolari” da 23 Paesi africani.

© European Commission – International Cooperation and Development

La sicurezza è un affare

“Dobbiamo lavorare su un’Europa più forte in materia di sicurezza e di difesa” affermò il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker nel luglio 2014. A cinque anni di distanza, l’Europa si prepara a dover gestire, per la prima volta nella sua storia, un cospicuo fondo per questo settore che, nel prossimo bilancio (2021-2027) potrà contare su una dotazione pari a 13 miliardi di euro in base a quanto stabilito dall’accordo raggiunto tra il Parlamento europeo e il Consiglio europeo lo scorso 20 febbraio. Per Francesco Vignarca, portavoce di Rete italiana per il disarmo (disarmo.org) “la decisione delle istituzioni europee di dotarsi di un fondo ad hoc per le spese militari tradisce lo spirito e i valori su cui è stata fondata l’Unione europea: una difesa comune e una politica di pace”. Il Fondo era stato varato dalla Commissione nel giugno 2017 nell’ambito del Programma europeo di sviluppo industriale per la difesa (EDIDP). I 13 miliardi di euro previsti per il prossimo bilancio saranno suddivisi tra sovvenzioni per il finanziamento diretto di progetti di ricerca “competitivi e collaborativi” (4,1 miliardi di euro) e risorse disponibili per integrare gli investimenti degli Stati membri, “mediante il cofinanziamento dei costi connessi allo sviluppo di prototipi e alle conseguenti attività di certificazione e collaudo (8,9 miliardi di euro)”.


in dettaglio

DIRITTI E DEMOCRAZIA: I CASI DELL’UNGHERIA E DELLA POLONIA

Nel settembre 2018 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione con cui chiede alla Commissione di attivare la procedura prevista dall’articolo 7 del Trattato di Lisbona per constatare “l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave da parte dell’Ungheria dei valori su cui si fonda l’Unione”. La risoluzione, stilata dall’eurodeputata olandese Judith Sargentini, ha evidenziato una serie di criticità relative all’effettiva indipendenza del potere giudiziario, limitazioni alla libertà di espressione, attacchi alla libertà accademica e alla libertà della stampa, provvedimenti discriminatori ai danni di migranti, richiedenti asilo, rifugiati e dei cittadini rom.

Sebbene sia stato il caso più discusso sui media -italiani e non solo- quello ungherese non è il solo caso in cui la Commissione ha deciso di intervenire per tutelare i valori fondamentali dell’Unione. Era successo nel dicembre 2017, quando la Commissione europea aveva attivato lo stesso procedimento nei confronti della Polonia. Al centro della procedura, una nuova normativa che abbassa da 70 a 65 anni l’età pensionabile per i giudici della Corte suprema, mettendo 27 dei 72 giudici attualmente in carica a rischio di pensionamento d’ufficio. Una legge che, per la Commissione “è incompatibile con il diritto dell’Unione in quanto lede il principio di indipendenza della magistratura”.

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