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Che fare dopo il voto? È ora di scelte radicali contro gli apparenti “padroni della storia”

© Roberto Brancolini / Fotogramma

Nel rifiuto di un’analisi onesta della crisi profonda di un intero modello di sviluppo e di sistemi democratici che a quel modello hanno legato la propria sorte, la regressione verso una visione difensiva, suprematista e conservatrice del mondo non può essere una sorpresa. Ma uno spiraglio c’è, scrive Lorenzo Guadagnucci

La fine, stavolta, era nota. Chi ha corso per vincere (la destra) ha vinto, chi ha corso per non vincere (Partito democratico e possibili alleati) ha perso. Tutto come previsto, dunque, nelle elezioni politiche più scontate della storia recente, in virtù di un sistema elettorale non proporzionale e delle scelte compiute prima del voto (allearsi a destra, non allearsi nella non destra). Ora la parola la prenderanno i politologi (che passeranno in rassegna i flussi elettorali e i nuovi “colori” di città e Regioni) e gli editorialisti, che come al solito consiglieranno la linea politica ai vari leader di riferimento. Poi si insedierà il nuovo governo, che in Europa è già definito -seguendo gli standard internazionali- di estrema destra, invece del pudico e conciliante, nonché fuorviante, “centrodestra” in uso sui media italiani.

Poi c’è tutto il resto, ossia le cose più importanti, visto che queste surreali elezioni hanno eluso i temi cruciali del momento e del futuro più prossimo. Si è votato nel pieno di una guerra europea e nei giorni della sua escalation. Nessuno, in campagna elettorale, ne ha fatto davvero menzione ma mentre mettevamo le schede nelle urne, a Mosca, Kiev e Washington si discuteva e tuttora si discute, con sconcertante leggerezza, del possibile -se non probabile- uso di armi atomiche “tattiche” in Ucraina da parte di Vladimir Putin e del tipo di risposta che l’Occidente (cioè gli Stati Uniti) eventualmente sceglierà: una bomba “tattica” su una città russa o sulla capitale? Una bomba non tattica, o altro ancora? E mentre fingevamo di partecipare a una competizione (che, come detto, non c’è mai stata), tra cosiddetto centrodestra e cosiddetto centrosinistra, si contavano ancora morti e dispersi nell’alluvione delle Marche e scattavano in mezza Italia allarmi meteo sempre più allarmanti. Senza che, ovviamente, si parlasse davvero e seriamente di mitigazione degli effetti del disastro climatico in corso, del dissesto idrogeologico del Paese, dell’urgenza di riorganizzare la vita collettiva in modo da ridurre i consumi di energia, di suolo, di risorse scarse.

63,9% è l’affluenza alle elezioni politiche del 25 settembre 2022 in Italia. Nella Regione Calabria ha votato il 50,8% degli aventi diritto

Possiamo dire, insomma, che abbiamo avuto elezioni menzognere (per il falso dibattito su una competizione che non c’è mai stata) e anche anacronistiche, poiché le questioni più pressanti e cruciali del nostro tempo ne sono rimaste incredibilmente fuori. Non c’è da sorprendersi, in questo quadro, se il numero degli astensionisti ha superato un terzo degli elettori, e nemmeno del successo di forze politiche che si rifanno al nazionalismo novecentesco, all’eterna fascinazione per il fascismo, a una vocazione identitaria vicina al suprematismo bianco statunitense: è il frutto, tutto ciò, del progressivo sgretolamento della cultura democratica, socialista e antifascista, minata al suo interno -ormai da un trentennio- dall’avvento dell’ideologia neoliberista. Nel rifiuto di un’analisi onesta della crisi profonda di un intero modello di sviluppo e di sistemi democratici che a quel modello hanno legato la propria sorte (vale ancora per tutti il motto di Margaret Thatcher “There is no alternative”, non ci sono alternative), la regressione verso una visione difensiva, suprematista e conservatrice del mondo non può essere una sorpresa.

Alcuni politologi già propongono una ridefinizione dello spazio politico istituzionale italiano ed europeo, secondo la quale ci sarebbero ormai tre poli: una destra neoliberista nazionalista con venature suprematiste (la destra al potere in Ungheria, Polonia e ora in Italia; il partito di Marine Le Pen in Francia; i neofranchisti di Vox in Spagna); un centro ugualmente neoliberista ma europeista e con venature progressiste sui diritti individuali (il partito di Emmanuel Macron in Francia; il binomio Spd-Verdi in Germania; il cosiddetto centrosinistra in Italia); infine una sinistra erede delle idee socialiste e aperta al nuovo vento ecologista, con venature populiste (qui si portano le esperienze della France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e degli spagnoli di Podemos, mentre in Italia si attende una possibile evoluzione del Movimento 5 stelle o almeno del suo elettorato, con nuove organizzazioni da costruire). Osservato sotto questa lente, l’esito elettorale del 25 settembre risulta in effetti più chiaro e può far pensare a un astensionismo giovanile e di sinistra dovuto alla sommatoria di una campagna elettorale fuori dal tempo presente e di una proposta politica -quanto al polo di sinistra- ancora opaca e insufficiente.

In un quadro così bloccato, torna la domanda di sempre, l’assillo di chi vuole dare un senso al proprio impegno civile e politico guardando a un orizzonte di giustizia sociale e alle future generazione; la domanda è: che fare? La risposta è semplice a ardua allo stesso tempo: quello che si è sempre fatto, ma con più forza, con più lungimiranza, con l’urgenza imposta da avvenimenti sconvolgenti come la minaccia nucleare, l’annunciata recessione globale, gli effetti sempre più incombenti del disastro climatico: quindi studiare, organizzarsi, agire. È il tempo, questo, delle scelte radicali; è l’ora di mettere in discussione il modello di sviluppo e i sistemi politici che lo sostengono, avviati -lo abbiamo visto- verso una regressione illiberale; è l’ora di pretendere dagli apparenti padroni della storia -potenziali apprendisti stregoni- di indicare vie di uscita dalla guerra in Ucraina prima che sia troppo tardi (c’è sempre una via d’uscita ed è incredibile che le diplomazie e le istituzioni sovranazionali siano state messe in un canto); è l’ora di mettere la giustizia climatica, che è anche giustizia sociale globale, al centro delle scena, politicizzando l’ondata ecologista, rimasta finora sulla superficie delle cose; è l’ora di impegnarsi, di contestare e partecipare, è l’ora di organizzarsi avendo come orizzonte una trasformazione profonda dei modi di produrre, di consumare, di vivere, di stare insieme e una conseguente, altrettanto profonda trasformazione di sistemi politici che si stanno rivelando obsoleti, incapaci di affrontare le sfide del nostro tempo, se non proponendo illusorie scorciatoie destinate a moltiplicare ingiustizie, sopraffazioni e guerre.

È una sfida enorme, ma non deve spaventare: cambiare il corso apparentemente ineluttabile della storia si può, è già successo e può accadere di nuovo.

Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”

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