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Cultura e scienza / Opinioni

Caravaggio ha dipinto la rivoluzione a Messina

L’Adorazione dei pastori è una tela dipinta da Caravaggio nel 1609, a Messina. È custodita nel Museo regionale della terza città siciliana

La Natività realizzata in Sicilia nel 1609 racconta il mistero di ogni nascita, e invita ad accogliere e riconoscere la dignità di ogni corpo umano

Tratto da Altreconomia 188 — Dicembre 2016

Non c’è bisogno del Ponte sullo Stretto per andare a incantarsi davanti a questa immagine della Natività, nel Museo Regionale di Messina. Qui una sala davvero straordinaria conserva due grandi pale d’altare di Caravaggio, uscite miracolosamente incolumi dal terremoto epocale del 1908. Sono due testi altissimi dell’estremo tempo dell’artista, che approda in Sicilia nell’ottobre del 1608, in fuga da un supercarcere di Malta, dove era stato recluso per aver partecipato ad una rissa in cui era stato seriamente ferito un cavaliere. Dopo aver trascorso qualche mese a Siracusa, Michelangelo Merisi giunge a Messina, allora ricca, colta, fiorente. Qui si impegna a dipingere la spettrale, angosciantissima Resurrezione di Lazzaro, tutta giocata su un tira e molla tra la vita e la morte. Subito dopo, Caravaggio corre all’altro estremo della vicenda umana: la nascita.

Già, perché non c’è davvero nulla di metafisico, o anche solo di solenne, in questa scena raccolta e familiare che fu concepita per stare sopra l’altar maggiore della chiesa dei Cappuccini. Il protagonista è sempre il corpo: innanzitutto quello dei tre pastori e di san Giuseppe (il quale è in primo piano, vestito dallo stesso colore del saio dei committenti). Corpi compressi e accavallati, come in un bassorilievo colato in bronzo. Poi i grandi corpi del bue e dell’asino, a far da quinta in questa malmessa capanna di legno (tetto incluso) che è uno degli ambienti più chiari e tangibili della pittura di Caravaggio. Il corpo delle cose: la mangiatoia di legno piena di paglia, e la meravigliosa natura morta dei poveri, in primo piano, con gli strumenti del falegname, e un po’ di pane.
Infine i due corpi centrali, per il quadro e per tutta la narrazione del Natale: Maria e il Bambino.

Ed è qui che Caravaggio sembra tornare alla saggezza degli schemi dell’arte bizantina, o alla suprema forza psicologica di Donatello. Perché non solo i protagonisti del quadro e dell’evento sono abbandonati a terra, ma anche perché non guardano, non si muovono, non entrano in relazione con nessuno. Sono bagnati dalla luce, li possiamo ammirare, scrutare, pregare: ma non per questo rompono la loro intimità, ora che sono faccia a faccia dopo nove mesi di attesa. Gesù è un vero bambino: non un piccolo idolo benedicente che dispensi grazie, o sguardi complici. Dorme, dunque, carezzando il volto della mamma. E quest’ultima è una figura indimenticabile: si sdraia davanti alla mangiatoia, perché tutti questi ospiti imprevisti possano vedere meglio il Bambino. Ma poi non ha forze, è esausta: e si abbandona a un tenerissimo sonno, incurante dei pastori, di noi che la guardiamo. Chiusa in un abbraccio con suo figlio, lontana da ogni altra cosa.

Guardando questo quadro non possiamo dimenticare che, in qualunque cosa crediamo, Natale è la festa della dignità del corpo umano: non importa quanto indifeso, stanco, piccolo, umile, povero, migrante. Anzi, proprio per questo, divino: cioè degno di essere onorato e amato sempre, comunque, in ogni luogo. Forse i Cappuccini di Messina non se ne accorsero, ma Caravaggio su quell’altare aveva fatto la rivoluzione.

Tomaso Montanari è professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli. Il suo ultimo libro è “Privati del patrimonio” (Einaudi, 2015)

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