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Bombe italiane in Yemen: l’indagine su Rwm Italia e Uama deve continuare

Accolto il ricorso di tre organizzazioni della società civile contro l’archiviazione dell’indagine volta ad accertare le responsabilità dei dirigenti di Rwm Italia e dell’Autorità nazionale nell’esportazione di armamenti nella guerra in Yemen. Le armi sarebbero state usate dalla coalizione a guida saudita causando la morte di civili nel 2016

© Rete italiana pace e diasarmo

Non deve essere archiviata l’indagine sulle responsabilità per l’uso delle armi italiane in Yemen. A stabilirlo, il 22 febbraio 2021, è stato il Giudice per le indagini preliminari presso la Procura di Roma che ha deciso che deve proseguire l’inchiesta nei confronti dei dirigenti di Rwm Italia, filiale italiana del produttore di armi tedesco Rheinmetall AG, e degli alti funzionari dell’Autorità nazionale per l’esportazione di armamenti (Uama), l’agenzia del ministero degli Esteri che autorizza l’esportazione di armi. Il caso riguarda il ruolo che avrebbero avuto in un attacco aereo avvenuto nel 2016 in Yemen che causò la morte di una famiglia di sei persone a Derial-Hajari, un villaggio nel Nord-Ovest del Paese. Le armi di produzione italiana sarebbero state lanciate da cacciabombardieri della coalizione internazionale guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

È stato accolto il ricorso presentato dalle organizzazioni della società civile Centro europeo per i diritti costituzionali e umani di Berlino (Ecchr), la Ong yemenita Mwatana for Human Rights e la Rete italiana pace e disarmo che si erano opposte all’archiviazione, richiesta dalla Procura di Roma nell’ottobre 2019. Il Gip ha ordinato alla Procura di andare avanti con l’inchiesta, raccogliendo entro i prossimi sei mesi gli elementi finora mancanti e iscrivendo nel registro degli indagati i responsabili della Rwa e della Uama per i reati di abuso d’ufficio e omicidio colposo.

“Siamo molto soddisfatti. La notizia arriva a quasi sei anni dall’inizio degli attacchi commessi dalla colazione saudita in Yemen. In sei anni di conflitto le violenze sono aumentate, così come le violazioni dei diritti umani”, ha commentato nel corso della conferenza stampa, tenutasi mercoledì 24 febbraio, Radhya Al-Mutawakel di Mwatana for Human Rights. “Finora non c’era mai stata la possibilità di individuare precise responsabilità penali. La decisione del gip è la conferma che si può andare avanti ed è fondamentale per le famiglie delle vittime perché dà loro la speranza di avere giustizia”.

I fatti risalgono all’8 ottobre 2016, come ricostruito dalle tre organizzazioni, quando alle 3 di notte nel villaggio yemenita di Deir Al-Hajari una casa era stata distrutta causando la morte di un uomo, della moglie al quarto mese di gravidanza e dei loro quattro bambini. Là era stato ritrovato un anello di sospensione della bomba il cui codice aveva permesso di identificarla come un armamento prodotto nello stabilimento sardo di Domusnovas. Nell’aprile 2018 le tre organizzazioni, assistite dall’avvocata Francesca Cancellaro, avevano presentato una denuncia contro i dirigenti dell’azienda e contro gli alti funzionari di Uama. A essere contestata è la violazione della legge italiana 185/90, la Posizione comune 2008/944 dell’Unione europea e il Trattato Onu sul commercio delle armi (Att).

“Sin dall’inizio abbiamo invocato l’accertamento delle responsabilità sia rispetto agli attori pubblici sia nei confronti dei soggetti privati come produttori ed esportatori di armamenti. La decisione del giudice segna un passaggio decisivo nell’evoluzione delle indagini. Il procedimento era stato scritto contro ignoti mentre ora si dà un chiaro ruolo ai protagonisti coinvolti nella vicenda anche garantendo agli stessi indagati di fruire della garanzie del diritto di difesa”, ha spiegato Cancellaro nel corso della conferenza stampa. “È importante sottolineare come nelle sue valutazioni il giudice abbia tenuto in considerazione l’evoluzione del conflitto in Yemen e le gravi violazioni dei diritti umani commesse dalla colazione a guida saudita, documentate dalle Nazioni Unite e dalle Ong locali già nel periodo in cui avvenivano le esportazioni di armi”, prosegue Cancellaro. Nell’ordinanza il giudice ha affermato che l’impegno dello Stato per salvaguardare i livelli occupazionali non può infatti giustificare una consapevole e deliberata violazione di norme che vietino “l’esportazione di armi verso Paesi responsabili di gravi crimini di guerra contro popolazioni civili”.

“La decisione sancisce che gli interessi economici non possono prevalere sulla difesa dei diritti umani che devono essere rispettati dallo Stato e dalle aziende”, ha dichiarato Cannelle Lavite di Ecchr . “E non è importante solo per l’Italia ma per tutto il movimento europeo che vuole riconoscere le precise responsabilità penali nelle violazioni dei diritti legate al commercio di armi. Apre a nuove possibilità”. Il caso è stato presentato alla Corte penale internazionale e le organizzazioni hanno esortato la Cpi a cooperare con i procuratori nazionali per indagare anche sulla responsabilità degli attori aziendali e politici in Germania, Francia, Spagna e Regno Unito.

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