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Bolzaneto visto dalla Francia

Quest’articolo è uscito su la Repubblica, ma solo nell’edizione ligure (l’autore, Massimo Calandri, è un giornalista che ha seguito con molta competenza e grande passione i processi in corso dopo il G8 di Genova). Il documentario di cui parla uscirà in Francia….

Quest’articolo è uscito su la Repubblica, ma solo nell’edizione ligure (l’autore, Massimo Calandri, è un giornalista che ha seguito con molta competenza e grande passione i processi in corso dopo il G8 di Genova). Il documentario di cui parla uscirà in Francia. La vicenda di Bolzaneto ha fatto breccia sui grandi media qualche settimana fa, appena prima del voto, ma si è subito inabissata. Nemmeno la tortura scandalizza più di tanto.

Diventa un film-documentario il caso della donna francese che il 20 luglio 2001 alle 14.40 violò la Zona rossa
Valérie, prima nella caserma degli orrori “A Bolzaneto mi hanno rubato l´anima”
Due giorni in balia dei carcerieri: “Il loro obiettivo era solo  annientarci”

MASSIMO CALANDRI

DAL NOSTRO INVIATO
AVIGNONE – E´ cominciato tutto con quella stretta al braccio. Una mano
maschile l´ha presa e trascinata giù dall´auto della polizia. «La violenza
con cui mi ha afferrato. La brutalità, che in quel momento mi è apparsa
inutile. E´ stato un attimo, e dietro l´inquietudine è arrivata la
consapevolezza. Stava per accadere qualcosa di brutto. E io c´ero dentro
fino al collo».
Valérie Vie, francese. Nel pomeriggio del 20 luglio 2001 violò la Zona
Rossa, in piazza Dante. Fu la prima arrestata del G8. E la prima ad
entrare nella caserma di Bolzaneto. Sarà la protagonista di un
film-documentario di Pierre Carles, il Michael Moore francese. Che in
questi anni l´ha seguita con una telecamera, e continuerà a farlo fino al
termine del processo genovese. Carles vuole denunciare la follia di quel
“centro di temporanea detenzione” che ha scandalizzato l´Europa.
Raccontando la storia di Valérie. Che accetta per la prima volta di
ricordare con un giornalista.

«Avevo le mani legate dietro la schiena.
Sono scesa nel piazzale della caserma. C´era un gran sole, quel giorno. E
un silenzio irreale. Strano. Intorno a me ho visto tantissimi uomini, in
divisa o in borghese. Non parlavano, mi guardavano fisso. Mi odiavano».
Era tutto così strano. Così inquietante, ripete. «Pensavo di dover parlare
con qualche funzionario di polizia. Resterò qui un qualche minuto, mi sono
detta. Mezz´ora, al massimo. Mi chiederanno i documenti, spiegherò che
quando si è aperta quella grata io ho fatto un passo in avanti. Gli dirò
che volevo parlare con gli Otto Grandi, che è un altro mondo è davvero
possibile. Mi lasceranno andare subito». Invece no.

 Lascerà Bolzaneto solo due notti dopo. Picchiata, insultata, minacciata: “Le vedi le foto dei
tuoi figli? Non li vedrai mai più”. Senza aver mangiato, umiliata, derisa.
«Mi hanno sbattuto in una cella. C´era una ragazza tedesca che piangeva,
la faccia rivolta al muro. Non possono farti questo, le ho detto in
inglese, questo non è il Medio Evo. “No grazie, preferisco così. Ed è
meglio che lo fai anche tu. Questa gente è cattiva”, mi ha risposto».
Succede tutto molto rapidamente, giura. Che ti sale la paura, sempre più
forte. Non è la paura del male fisico, è qualcosa di più profondo. E nero.
«Ho compreso che la situazione era più grave di quanto potessi immaginare.
Ed è stata la fine, psicologicamente. C´erano ragazzi grandi e grossi.
Terrorizzati. Si muovevano come automi, obbedivano agli ordini che gli
urlavano al di là delle sbarre. E´ terribile vedere uomini forti ridotti
così, sottomessi. Ho visto che in un corridoio picchiavano un poveretto, e
quello che lo colpiva mi si è avvicinato gridandomi di restare faccia al
muro. L´ho fatto». Perché è così che succede. Che ad un certo punto pensi
solo a te stesso, a sopravvivere.

«Quando ci siamo rivisti, anni dopo
prima del processo, ci siamo abbracciati e abbiamo pianto. Per le nostre
paure, per il rimorso. Ci avevano ridotti a non più resistere, pensare,
agire. Ci avevano obbligati a rinunciare a tutto, perché questo era il
loro obiettivo: l´annientamento». E nella mente si fa tutto buio, tra
squarci di orrore. «Le urla che salgono con il passare delle ore, insieme
ai lamenti. Il sangue. La notte, noi che cerchiamo di stare vicini e
quelli che ci spaventano dalle finestre. Battendo i caschi sulle sbarre,
facendo versi d´animali». E pensare che quattro mesi dopo il direttore
della scuola della sua bambina l´aveva convocata, preoccupato. «Un
poliziotto era andato a parlare in classe agli studenti, diceva che loro
proteggono la brava gente. `Non è vero: voi la brava gente la picchiate!´,
gli aveva risposto mia figlia».

Non le interessa che gli imputati siano
condannati. «Non mi importa che vadano in galera. Mi interessa parlare di
quello che è accaduto. Ricordare, documentare. Perché tutto questo non
accada di nuovo. Mai più».

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