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Diritti / Opinioni

Bolzaneto: specchio d’Italia

G8-2001: la Cassazione scrive la parola fine al processo sulle violenze nella caserma. Dopo 12 anni, il Paese che non introduce il reato di tortura si scopre sempre uguale: i responsabili non pagano _ _ _
 

Tratto da Altreconomia 151 — Luglio/Agosto 2013

Ora che la Corte di Cassazione ha reso definitiva la sentenza sul “caso Bolzaneto” -40 persone, fra agenti e personale medico, giudicate colpevoli di falsi e abusi sui detenuti durante il G8 di Genova del 2001- c’è chi pensa di avere la soluzione pronta per intervenire: l’approvazione di una legge ad hoc sulla tortura. L’Italia sotto questo profilo è inadempiente da un quarto di secolo: si è impegnata a livello internazionale a introdurre tale crimine nel suo ordinamento penale, ma non lo ha ancora fatto. È una lacuna grave e va certo colmata, nonostante l’ostilità dei vertici delle forze dell’ordine e l’inerzia complice delle maggiori forze politiche. A questo fine è in corso anche una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare. E tuttavia il potente messaggio inviato dai tribunali e dalla Cassazione non può essere circoscritto a questo pur necessario intervento normativo. La sentenza del 14 giugno scorso certifica ciò che il potere politico finge di non vedere e non sapere: l’Italia è un Paese nel quale si pratica la tortura. Ed è un Paese con evidenti difficoltà a garantire la tutela dei diritti umani fondamentali.
L’esperienza  internazionale insegna che c’è un unico modo per contribuire alla prevenzione degli abusi di potere sui detenuti: l’effettiva punizione dei responsabili di ogni episodio di violenza o maltrattamento che venga accertato. E quello che è avvenuto in Italia dal 2001 in poi sotto questo profilo è gravemente deficitario.

Il processo per il caso Bolzaneto si è concluso a dodici anni dai fatti: una sentenza così tardiva non può essere efficace ai fini della prevenzione. Tanto più se le istituzioni -le forze dell’ordine, ma anche i ministeri interessati- hanno delegato alla magistratura il compito di accertare fatti e responsabilità, anziché condurre indagini interne tempestive e decidere di conseguenza. Un modo capzioso per voltare le spalle a una realtà spiacevole e quindi compiere un’omissione imperdonabile.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La magistratura ha svolto il suo compito, ma i responsabili degli abusi sono rimasti sostanzialmente impuniti grazie alla prescrizione e alla lieve entità delle pene inflitte. Tutti hanno potuto attendere il giudizio di Cassazione mantenendo i rispettivi ruoli, senza subire indagini disciplinari e men che meno sospensioni cautelative dal servizio. Nemmeno l’Ordine dei medici si è sentito in obbligo di intervenire sui sanitari condannati in primo, secondo e terzo grado per quanto avvenuto nell’infermeria della caserma-carcere.

I ministeri dell’Interno, della Difesa e della Giustizia hanno assistito ai processi di decine di agenti con indifferenza, arrivando ad avviare contenziosi reciproci sul pagamento dei risarcimenti alle vittime degli abusi, risarcimenti che quindi non sono stati ancora pagati. Nemmeno la sentenza di Cassazione ha modificato lo stato di colpevole torpore che circonda il tema degli abusi di potere su persone “custodite” da funzionari di Stato. Il caso, politicamente parlando, non si è nemmeno aperto, tanto più che i principali media hanno liquidato la notizia con avari articoli privi di analisi significative.
Non si è quindi parlato delle misure che sarebbe necessario avviare: la rimozione degli agenti e dei medici giudicati responsabili; l’avvio di procedimenti disciplinari; l’invio di scuse solenni e formali alle vittime degli abusi; la predisposizione di interventi di formazione rivolti alle forze dell’ordine; l’apertura di un dossier per studiare l’istituzione di un organismo indipendente di protezione dei diritti umani (riforma fortemente sostenuta da Amnesty International).

Si è scelta ancora una volta la via del silenzio, dell’inazione, della chiusura corporativa. E dire che le cronache, nei dodici anni che ci separano da Genova, hanno offerto numerose e terribili testimonianze delle gravi falle esistenti nei nostri apparati di sicurezza. Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Franco Mastrogiovanni, Aldo Bianzino, hanno perso la vita mentre si trovavano affidati alla custodia di agenti delle forze dell’ordine. Con onestà (e grande angoscia) dovremmo interrogarci sul nesso che lega Bolzaneto e Genova G8 a queste tragedie; dovremmo chiederci se l’inerzia e la minimizzazione di fronte agli abusi non abbiano assecondato le tendenze peggiori in seno alle forze di polizia. E oggi dobbiamo dire con chiarezza che il nulla seguito alla sentenza definitiva sui maltrattamenti inflitti a decine di detenuti nel luglio 2001, è un ulteriore contributo al degrado dei diritti umani nel nostro Paese, quindi al degrado del nostro già fiacco e traballante sistema democratico. —
 

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