Diritti / Attualità
Aquarius: il fiato sospeso di chi ha prestato soccorso in mare
Di fronte al rifiuto del governo italiano, la Spagna concederà l’attracco alla nave di “Sos Mediterranée” carica di 629 persone tratte in salvo nel Mediterraneo. Tuttavia “resterà uno strappo indelebile nelle pagine della nostra storia”, commenta Giovanna Scaccabarozzi, tra 2016 e 2017 medico a bordo di diverse imbarcazioni di ricerca e soccorso
La nave “Aquarius” e le 629 persone soccorse nelle acque Mediterraneo il 10 giugno da “Sos Mediterranée” in sei diverse operazioni “potranno attraccare a Valencia”. Poco dopo l’annuncio del capo del governo spagnolo Pedro Sanchez, il ministro dell’Interno e vice-presidente del Consiglio, Matteo Salvini, ha commentato: “Alzare la voce paga”.
Giovanna Scaccabarozzi è un medico che tra il 2016 e il 2017 ha lavorato per otto mesi a bordo di diverse navi di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Ha seguito gli sviluppi drammatici dell’Aquarius, non alza la voce, semmai trattiene il respiro.
“Chi ha conosciuto la realtà del soccorso in mare sta con il fiato sospeso, consapevole della difficoltà estrema di gestire la fragilità di un numero così elevato di persone a bordo -riflette Scaccabarozzi-: al termine di una giornata di recuperi si contano innanzitutto i morti e i feriti, come al tramonto di una battaglia, e poi si inizia freneticamente ad occuparsi di tutti gli altri. Non hanno abiti, né cibo, né identità. Da mesi passano notti insonni per la minaccia costante che i carcerieri tornino per l’ennesima sessione di torture in diretta telefonica con i familiari per estorcere altro denaro. Da mesi si dividono acqua sporca, pane raffermo in luoghi sovraffollati senza minime condizioni igieniche”.
Poche ore prima del nulla osta della Spagna, il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli ha dichiarato a Sky Tg 24 che “le condizioni a bordo (dell’Aquarius, ndr) sono buone”. Scaccabarozzi ha trascorso mesi al largo.
“Come possono stare bene 600 individui con corpi martoriati dalle prigioni libiche nonché dalle ultime ore di immobilità assoluta nel gommone, terrorizzati dal morire in mare o peggio (questo quanto riferito dalla maggior parte dei sopravvissuti) dall’essere riportati in Libia?”, si chiede.
Sa bene cosa significa navigare verso un porto sicuro. “Si tratta di un processo attivo che impegna tutte le risorse fisiche e mentali di equipaggio e volontari -spiega-. Necessitano ore di lavoro per più persone per la preparazione e la distribuzione di un pasto caldo (polveri liofilizzate da ricostituire con acqua bollente), e le scorte disponibili a bordo non possono comunque coprire molti giorni in mare, sia in termini quantitativi che di adeguatezza. I bisogni sanitari crescono esponenzialmente con il passare delle ore, e i sanitari a bordo lavorano senza sosta per far fronte ai casi urgenti nonché per la ricerca attiva di chi versa in condizioni critiche e non ha la forza di chiedere aiuto, stipati nella moltitudine.
Ci si deve occupare dei servizi igienici, sempre in numero limitato rispetto al fabbisogno numerico, per garantire dignità e condizioni di sicurezza sanitaria minima. E dopo aver risposto ai bisogni primari di umana sopravvivenza, resta il fantasma di un trauma collettivo profondo di cui occuparsi”.
Nel frattempo, però, il rifiuto del governo italiano di aprire i porti a 629 persone è paradossalmente presentato in queste ore come uno sforzo dovuto per ottenere maggiore partecipazione agli altri Paesi europei. Scaccabarozzi non è molto convinta del “vento di solidarietà e condivisione che spira in Europa su questa emergenza” (Toninelli).
“Quale che sia il destino imminente dell’Aquarius o delle altri navi che attualmente hanno completato i soccorsi o che ne condurranno nei mesi a venire, resterà uno strappo indelebile oggi nelle pagine della nostra storia”.
© riproduzione riservata