Diritti / Opinioni
Andate a vedere “Green Border”. Il cinema politico che torna sulla frontiera
Il film di Agnieszka Holland uscito nelle sale narra dei migranti “palleggiati” fino a morirne tra Polonia e Bielorussia. Lo fa senza elusioni o consolazioni, ricostruendo il contesto e le responsabilità. E ci ricorda che le democrazie europee hanno deciso, scientemente, di “lasciar morire” ai propri confini migliaia e migliaia di “vite di scarto”
Si intitola “Green Border”, confine verde, ma il film di Agnieszka Holland si presenterebbe in modo più esplicito se il titolo fosse “La vergogna d’Europa” o “L’eclisse dei diritti umani”. Di questo si parla, narrando la tragica vicenda dei migranti respinti, anzi “palleggiati” fino a morirne, in una catena infinita di violenze, umiliazioni, soprusi, tra la “democratica” Polonia membro dell’Unione europea e la dittatoriale Bielorussia di Alexander Lukashenko, il più fedele alleato, nonché vassallo, di Vladimir Putin.
“Green Border” non è un documentario ma è comunque un film in presa diretta e inchioda lo spettatore per due ore e mezza, lasciandolo senza respiro, con un profondo senso d’angoscia e un altrettanto forte senso di colpa, di impotenza, di inadeguatezza. È un film politico nell’accezione più alta del termine; non è elusivo come altre pellicole sul tema, men che mai consolatorio: va al cuore di una vicenda attuale e vivissima e lo fa con spirito narrativo, non didascalico né pedagogico, ma riuscendo a mettere a fuoco il contesto storico-politico e le responsabilità di quanto avviene.
Lo sfondo geografico è la magnifica foresta Białowieża, l’ultima foresta primaria d’Europa, un luogo che andrebbe venerato e invece diventa il teatro di abiezioni compiute per ciniche ragioni di opportunità geopolitica, violando non solo i diritti, le leggi, i valori fondamentali vanamente conclamati, ma anche la dignità e i corpi di sventurati gruppi di cittadini siriani, afghani, alcuni africani, arrivati a Minsk in aeroplano con la prospettiva, se non la promessa, di passare facilmente in Polonia e da lì raggiungere parenti, amici, connazionali in altri paesi dell’Unione. È una cinica trappola. Per Lukashenko i migranti non sono altro che piccole “bombe umane” da lanciare oltreconfine. Per la Polonia, che non ha alcuna intenzione di subire le mosse dello scomodo vicino, è l’occasione per mostrare a tutti i suoi muscoli. Le vite dei migranti, in questo confronto, valgono meno di niente e questo è il messaggio che toglie il fiato a chi veda il film in una sala in Europa, teorica patria della democrazia e dei diritti umani.
Il film procede lungo tre prospettive. Quella di una famiglia siriana (e di una donna afghana che si aggrega al gruppo), quella di un giovane agente delle guardie di confine, quella degli attivisti che accorrono in soccorso dei migranti sul lato polacco del confine. Seduti in poltrona, va da sé, si parteggia per la famigliola sottoposta a ignobili violenze e vessazioni e si prova a identificarsi con i volontari che portano aiuto nonostante le gabbie legali (per quanto inumane) create dal regime polacco per ostacolarne l’azione, un po’ come avviene nel Mediterraneo con le navi di soccorso. Ma la verità è che noi spettatori, seduti tranquillamente in poltrona, sia pure metaforicamente sulle spine, siamo rappresentanti soprattutto dalle guardie polacche di frontiera, che agiscono come agiscono -con brutalità e disprezzo, salvo qualche piccola crisi di coscienza privata- su mandato del loro governo del momento e con l’avallo dell’Unione europea (perciò il fatto che nel frattempo, dall’uscita del film a oggi, il governo fondamentalista polacco sia caduto, non cambia la sostanza delle cose).
Si sta male perché quegli odiosi agenti, in qualche modo, siamo noi. A un certo punto, nel gruppo dei volontari, prende forma una linea di rottura: da un lato i legalitari, decisi a rispettare le regole, pur vessatorie, per non essere arrestati e messi fuori gioco, azzerando così i soccorsi; dall’altro i più spericolati, animati da un senso così forte di giustizia da essere pronti a infrangere i divieti e correre tutti i rischi del caso, per esempio caricando in macchina dei fuggiaschi o violando la linea rossa definita nei pressi del confine in nome dello “Stato d’emergenza” a “difesa dei confini”. Una ragazza del secondo gruppo, a un certo punto, esclama, con rabbioso sarcasmo, una frase del tipo: “Non crederete mica alla favola dell’Europa dei diritti umani?”. Già, vogliamo ancora crederci?
In molte sale italiane il film è stato presentato con un doppio collegamento: la regista polacca e Andrea Segre, il regista de “L’ordine delle cose”, il film del 2017 che aveva coraggiosamente messo a nudo le responsabilità dei funzionari italiani nella tragedia dei migranti in Libia. Come Segre, Holland ci ricorda che le democrazie europee hanno deciso, scientemente, di “lasciar morire” ai propri confini migliaia e migliaia di “vite di scarto”. “Green Border” parla di noi. Il cinema politico è tornato.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
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