Esteri / Reportage
Anche domani i bimbi di Raqqa, nel Nord-Est della Siria, non andranno a scuola

Dopo la caduta del regime di Assad in oltre 120mila sono stati messi in fuga da Shahba e Manbij da milizie vicine alla Turchia e hanno trovato rifugio nella ex capitale del sedicente Stato Islamico. Numerose famiglie erano già sfollate da Afrin, presa dall’esercito di Erdogan nel 2018, e presto potrebbero essere sradicate di nuovo, lasciando indietro anche le tombe dei cari persi nel frattempo. Le testimonianze e le storie dagli shelter improvvisati nelle aule
Sulla soglia di un’aula in una scuola di Raqqa, nel Nord-Est della Siria, una donna tiene stretta tra le mani la foto del suo bambino di quattro anni, portatole via dagli “effetti collaterali” di una guerra mai finita. Non dice il suo nome ma grida, chiede a gran voce che la sua storia venga raccontata. Ha il volto della disperazione, il suo sguardo è la sintesi dell’irriducibile, dell’infinito dolore di una madre che ha perso suo figlio.
È fuggita con i suoi quattro bambini da Shebah, a Ovest dell’Eufrate, a fine 2024. Era già stata costretta a scappare da Afrin, la sua città natale, occupata dai turchi nel 2018. Ha camminato a piedi per più di cento chilometri. Lei, i suoi figli e altre 12mila persone circa sono fuggite verso Raqqa, dove per una settimana hanno dormito nello stadio comunale, per strada e al freddo. Molti bambini sono morti di ipotermia, altri attraversando la strada sono stati investiti. “Questo -racconta lei tra le urla- è quello che è successo anche a mio figlio”.
La sua storia è simile a quella di altre migliaia di persone fuggite da Manbij e da Shebah, città nel governatorato di Aleppo sotto il controllo dell’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est, prima dell’improvvisa caduta del regime di Assad.
Mentre il gruppo Hay’at Tahrir al-Sham, guidato dal neo autoproclamato presidente della Siria Ahmad al-Shara (Al Jolani), avanzava verso Damasco, i miliziani turkmeni affiliati alla Turchia e sotto l’egida dell’Esercito nazionale Siriano entravano a Manbij e Shebah, approfittando della situazione di caos per seminare il terrore e costringendo la popolazione a fuggire.
“Quando siamo scappati eravamo tutti civili, tanti sono stati uccisi e i miliziani hanno messo delle coperte sopra i loro corpi e li hanno bruciati. È stato molto difficile, abbiamo dovuto camminare per ore in mezzo ai morti. Molte persone sono ancora oggi disperse. Ci hanno già cacciati da Afrin, adesso da Shebah, prima o poi ci cacceranno anche da qui. I turchi ci attaccano solo perché siamo curdi, ci odiano perché siamo curdi”, racconta Naima, 45 anni ma il viso stanco di chi di anni ne ha molti più.

“Da Afrin nel 2018 siamo stati sfollati a Shebah, adesso sono due mesi che stiamo in questa scuola di Raqqa ma non è ancora chiaro dove verremo trasferiti. Qui non possiamo rimanere. Nei prossimi giorni dovrebbero portarci a Dabka ma noi vogliamo solo tornare ad Afrin”, continua.
Per queste famiglie è previsto a breve l’ennesimo trasferimento forzato. Qui sono al sicuro ma non possono restare ancora a lungo e nei prossimi giorni verranno ricollocate ad Hasaka o Qamishli. A Raqqa però ci sono le tombe dei bimbi sfollati che sono morti nelle scorse settimane, per questo le madri non vogliono andar via. “Mi hanno già portato via mio figlio una volta, adesso di nuovo”, continua la donna sedendosi a terra e appoggiando la testa sul bordo della stufa a gas posta al centro dell’aula.
Nelle scuole della ex capitale del sedicente Stato Islamico, adesso controllata dall’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est, non si fa più lezione. I banchi sono capovolti, uno sopra l’altro, le aule adibite a rifugi e le finestre usate per stendere i panni. Da più di 45 giorni tra i gessetti e le lavagne dormono centinaia di famiglie mentre i ragazzi e le ragazze di Raqqa restano a casa.
“La situazione non può andare avanti così, abbiamo bisogno di ricominciare a fare lezione o i bambini non torneranno mai più a scuola”, racconta preoccupata una maestra. Tra le macerie e la voglia di ricostruire il futuro, infatti, a Raqqa si sente ancora forte lo spettro del passato. “Solo con l’istruzione possiamo evitare che i giovani si radicalizzino -continua l’insegnante-, soprattutto in un momento delicato come questo”.
Fa riferimento all’intensificarsi, nelle ultime settimane, di attacchi rivendicati dall’Isis in tutta la regione. “Da quando è caduto il regime di Assad qui è aumentata tantissimo la tensione e la violenza -spiega infatti Jîhan Hanan, direttrice del campo di Al Hol dove sono detenuti i familiari di coloro che si sono uniti a Daesh nel 2014-, per dieci giorni i nostri operatori non sono potuti entrare nel campo per questioni di sicurezza. La gente qui dentro è convinta che presto Al Jolani verrà a liberarli”.
Questo però non sembra essere nell’agenda del neo presidente siriano, almeno per adesso. Quello che è certo è che le milizie filo-turche che hanno preso Shebah e Manbij e che adesso combattono alla diga di Tishrīn, e contro cui il nuovo governo siriano non si è mai apertamente scagliato, hanno una dottrina molto simile a quella degli uomini di Daesh. Lo racconta chi è sopravvisssuto alla loro brutalità.
Jamila (nome di fantasia) tiene la figlia di quattro anni in braccio, mentre il maschietto più grande le sta accanto e l’accarezza. Si trovano in un’altra aula della stessa scuola di Raqqa: “È da un mese che stiamo qui, siamo fuggiti da Shebbah perché c’erano bombardamenti e attacchi turchi. Siamo passati da Hasakah, poi Derick, e infine Raqqa, ma adesso le scuole vanno svuotate quindi ci rimanderanno ad Hassake o Qamishli -spiega la donna-. Ci abbiamo messo quattro giorni ad arrivare a Dabka, dormendo nelle macchine, senza cibo, senza acqua. I miliziani hanno gettato per strada i corpi della gente uccisa, ricordo che ad un certo punto c’erano quattro corpi a terra, erano terrificanti, ma ancora di più lo erano gli occhi delle milizie. Abbiamo sempre cercato di schivare il loro sguardo”, continua la donna, rinchiusa dentro queste quattro mura insieme ad altre dodici famiglie.
A qualche centinaio di metri da qui, invece, c’è chi paga le conseguenze di averle guardate in faccia quelle milizie, rischiando la vita per difendere la diga di Tishrīn, Kobane e tutto il progetto del confederalismo democratico.
Nell’ospedale più grande del cantone di Raqqa ogni giorno arrivano decine di feriti, donne, anziani e bambini che sulla linea del fronte protestano contro l’avanzata delle milizie filo turche. Nei pressi della diga di Tishrin le bombe di Ankara non risparmiano nessuno, nemmeno il piccolo Hazem di dodici anni, ferito dalla scheggia di un drone nel lato sinistro del cranio. Era con la mamma, il papà e i suoi quattro fratellini e stavano manifestando pacificamente quando un drone turco li ha mirati e colpiti.
“Siamo originari di Kobane, ma vivevamo a Manbij prima che le fazioni filo-turche invadessero la città. Quando sono arrivati siamo stati costretti a scappare a Kobane -racconta Emira Idiris, in piedi di fronte al lettino del figlio-. Siamo curdi e sappiamo che loro i curdi non li accettano, noi per loro siamo degli infedeli. Non accettano il modo in cui viviamo, come ci vestiamo, che noi donne non indossiamo l’Hijab. Per loro tutto questo è qualcosa di inaccettabile”.
Il giorno in cui è stato attaccato suo figlio, come ogni giorno, sono stati presi di mira e colpiti dall’esercito turco decine di civili curdi. Nonostante il rischio concreto di morire, però, le carovane alla diga non si fermano. “Andare a protestare è un nostro dovere -conclude la donna- se queste fazioni attraverseranno il fiume uccideranno tutti, adulti e bambini, anche i miei figli. Preferiamo rischiare di perdere la vita che la libertà del nostro popolo”.
Intanto a Raqqa il sole si nasconde dietro la riva del fiume, tra le macerie un gruppo di bambini gioca a pallone, mentre le madri bevono un tè sedute su quello che resta dell’androne di casa. Sopra le rovine frutto dei bombardamenti della coalizione anti-Isis, dei russi e del regime di Bashar Al Assad, oggi cercano rifugio i nuovi sfollati interni della Siria del Nord-Est, mentre anche domani i bimbi di Raqqa non andranno a scuola.
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