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“Alla linea”, un romanzo in versi sul lavoro in fabbrica

La letteratura working class si sta affermando sempre di più nelle opere narrative. È il caso di Joseph Pontus, attivista, letterato ed educatore prematuramente scomparso che ha scritto un solo romanzo in versi sulla sua esperienza in fabbrica. Un testo in versi sull’alienazione e sul lavoro che lascia totalmente in disarmo

© Paul Einerhand - Unsplash

Quando Elio Pagliarani scrisse “La ragazza Carla” alla fine degli anni Cinquanta fu un caso abbastanza inedito: un poemetto sull’avviamento al lavoro di una giovane impiegata milanese all’alba del boom economico. Da un punto di vista storico segnò l’affermarsi di un linguaggio sperimentale che allora era avanguardia, ma ora riconosciamo come autentico negli oggetti culturali che leggiamo, guardiamo e ascoltiamo: il neorealismo mischiato alla lingua della pubblicità e del commercio. Ma questo non era l’unico elemento di novità: per la prima volta la letteratura si occupava di una lavoratrice e di un  lavoro umile. È sempre stato curioso che un Paese di rapida industrializzazione come il nostro, abbia rimosso il lavoro per molto tempo come tema. Nei versi iniziali della “favola urbana” di Pagliarani, i più celebri, erano evidenti sia questo linguaggio nuovo sia la dichiarata rivendicazione di occuparsi dell’alienazione di un’esistenza umile:

Carla Dondi fu Ambrogio di anni
diciassette primo impiego stenodattilo
all’ombra del Duomo

Sollecitudine e amore, amore ci vuole al lavoro
sia svelta, sorrida e impari le lingue

le lingue qui dentro le lingue oggigiorno
capisce dove si trova? TRANSOCEAN LIMITED
qui tutto il mondo…
è certo che sarà orgogliosa.

Se da una parte la letteratura si è occupata poco di fabbrica ma con grandi esempi -non va dimenticato “Memoriale”, il librone di Paolo Volponi, impiegato al marketing di Olivetti a Ivrea direbbe la sua job description di oggi- e sempre più di lavoro grazie a Bianciardi e Cassola tra i primi, dall’altra la poesia sempre raramente. Con il fiorire del ritorno del lavoro al centro delle narrazioni, tutti i tipi di lavoro, tutti i tipi di narrazione (da Leogrande a Trevisan passando per Ferracuti), le cosiddette narrazioni precarie ci hanno regalato uno dei più originali romanzi generazionali in versi degli ultimi anni: “Perché veniamo bene nelle fotografie” di Francesco Targhetta (Isbn, 2012). Come ci suggerisce Alberto Prunetti, che ha scritto un saggio irregolare e molto utile “Non è un pranzo di gala” (minimum fax, 2022), oggi si deve parlare di letteratura working class, scritta da lavoratori e lavoratrici dall’interno dei propri lavori.

Si tratta di un fenomeno occidentale largamente diffuso, tanto che il New York Times ha indicato come libro del 2019 “Maid: Hard Work, Low Pay, and a Mother’s Will to Survive” di Stephanie Land, una donna che ha fatto le pulizie per sei anni per ripagare i debiti di studio universitari, storia da cui è stata tratta anche una serie Netflix.

È uscito da poco il primo romanzo da un punto di vista di una rider che consegna cibo: scritto da Natalia Guerrieri “Sono fame” (Pidgin edizioni) è il racconto trasfigurato di Chiara, che lavora come rider appunto in una città immaginaria, le cui giornate sono scandite da una chat sempre attiva attraverso cui ogni suo gesto viene monitorato. 

Non deve stupire quindi l’uscita del poema in versi “Alla linea” di Joseph Ponthus, tradotto dal francese da Ileana Zagaglia e pubblicato da Bompiani, che si inserisce in questa nuova tendenza della letteratura scritta da lavoratori e lavoratrici. Ponthus è nato nel 1978 ed è morto prematuramente nel 2021. Attivista e letterato, ha fatto l’educatore nella periferia di Parigi per poi stabilirsi in Bretagna dove, attraverso le agenzie interinali, ha lavorato in fabbrica. “Alla linea”, il suo primo e unico romanzo, è stato un caso editoriale e ha riscosso grande successo di critica, vincendo diversi premi letterari:

All’agenzia interinale mi chiedono quando posso cominciare
Tiro fuori Hugo la mia solita battuta letteraria e scontata
“Be’ domani all’alba nell’ora in cui biancheggia la campagna”
Mi prendono alla lettera attacco il giorno dopo alle sei del mattino

Con il passare delle ore e dei giorni il bisogno di scrivere si ficca tenace come
una lisca in gola
Non la desolazione della fabbrica
Ma la sua paradossale bellezza

Per due anni Ponthus ha lavorato alla linea nell’industria alimentare, iniziando con la pulizia del pesce, gamberetti soprattutto, per passare al siero di latte e persino al tofu, per poi finire nei mattatoi, trasportando carcasse, pulendo macchinari e rimuovendo resti animali. “Alla linea” racconta i turni di notte -sempre in una condizione precaria, non sapendo mai se si avrà confermato il lavoro per il giorno dopo, e la fatica, la difficoltà a mettere insieme un salario decente-. Il lavoro è estremamente faticoso: gli orari sono spesso scaglionati, l’orario può cambiare il giorno stesso (bisogna avere sempre il cellulare acceso). E poi il corpo è stanco, non ce la fa più spinto al limite anche con dolori insopportabili alla schiena. Ponthus accumula pensieri mentre lavora che, grazie a quella urgenza, riesce a riportare in poesie: le sue intuizioni, le sue associazioni, si intrecciano a conversazioni interiori con Proust, Apollinaire, Marx e tutta la sua cultura libresca, nonché canzoni ascoltate da bambino. Tutto insieme perché il rumore delle macchine è troppo forte per parlare con gli operai che lo circondano. Le citazioni, anche molto colte, servono per un processo di consapevolezza sulla propria vita:

“Di questo luogo sotterraneo, non ho niente da dire. So che ha avuto luogo e che ormai la traccia è scritta in me e nei testi che scrivo.”

Georges Perec
Les lieux d’une ruse

La mia vita non sarebbe stata la stessa senza la psicoanalisi
La mia vita non sarà mai più la stessa dopo la fabbrica

La fabbrica è un lettino

Ponthus è tormentato da incubi di animali morti che sembrano quadri horror alla Bacon (non c’è da stupirsi!), dalla fatica, dalla monotonia del lavoro, eppure è colpito dalla solidarietà tra gli operai e dalla loro dignità, mentre a casa, nelle ore del riposo, sprofonda nell’allegria della vita con la moglie, nel conforto di un pasto caldo, di una passeggiata con il cane.

La scrittura poetica riesce a restituire la ripetizione, il ritmo è quello dettato dalle macchine, che a volte vanno troppo veloci, a volte vacillano e si rompono. I gesti sono meccanici e i pensieri seguono la linea. I registri di “Alla linea” passano dalla critica politica alla derisione e alle osservazioni umoristiche in cui Ponthus mette in ridicolo l’assurdità del lavoro. Un romanzo in versi sull’alienazione e il lavoro che lascia totalmente in disarmo. La favola del “taylorismo dal volto umano”, di umanizzare il lavoro manuale grazie all’innovazione tecnologica e alla robotizzazione, non sta in piedi perché alla linea si va a caccia delle perdite di tempo e tutto ha un valore, soprattutto il controllo sul corpo e le azioni dei lavoratori. Sono tanti i riferimenti letterari che Ponthus accumula, ma colpiscono i riferimenti ricorrenti alle lettere e alle poesie del poeta Guillaume Apollinaire dalla Prima guerra mondiale: “è incredibile tutto quello che riusciamo a sopportare”.

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