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Airbnb, le tasse e il modello irlandese. La parola alla Corte europea
Il colosso californiano dell’affitto breve continua a crescere in Italia: il numero di arrivi presso gli host è stato di 9,6 milioni nel 2018, +71,43% rispetto al 2016. Ancora oggi, però, non incassa nel nostro Paese le proprie commissioni di servizio, e -di conseguenza- non paga le imposte “reali”, lamentando un “ingiustificato” ostacolo all’attività sul mercato. Ma il punto è un altro e si chiama equità
Sarà la Corte di Giustizia europea a stabilire se il governo Gentiloni, nel 2017, ha violato la libertà d’impresa di Airbnb, prevedendo che gli operatori che si occupano di gestire locazioni brevi online debbano assumere la funzione di sostituto d’imposta. In pratica, Airbnb dovrebbe trattenere e versare direttamente allo Stato una ritenuta del 21 per cento su quanto incassato dagli host, come sono definiti nella neolingua del gigante californiano dell’affitto breve coloro che mettono a disposizione un immobile. Secondo Airbnb, e in particolare Airbnb Ireland Unlimited Company ed Airbnb Payments Uk Limited, che hanno ricorso prima al TAR e quindi al Consiglio di Stato contro l’Agenzia delle Entrate -e nei confronti della Presidenza del consiglio dei ministri e del ministero dell’Economia- l’atto del governo italiano discriminerebbe lo specifico modello di business di Airbnb, “determinando un ingiustificato pregiudizio rispetto a tutti gli altri operatori del mercato dell’intermediazione immobiliare telematica” come si legge nella sentenza pubblicata il 18 settembre scorso con cui il Consiglio di Stato rimanda alla Corte di Giustizia Ue.
Una competizione per il mercato
Tra i soggetti intervenuti in giudizio a fianco dell’Agenzia delle Entrate c’è anche Federalberghi, la principale organizzazione imprenditoriale del settore turistico-ricettivo in Italia. Da anni, è in prima fila per denunciare l’evoluzione del modello di ospitalità diffusa di Airbnb, che ha definito shadow economy, e non sharing economy.
È il centro studi di Federalberghi ad offrire alcuni dati che “misurano” la portato del fenomeno Airbnb nel nostro Paese: il numero di arrivi presso gli host italiani è stato di 9,6 milioni nel 2018 contro i 5,6 milioni del 2016 (+71,43%); gli annunci relativi ad alloggi italiani, rilevati dal Centro studi di Federalberghi con l’assistenza tecnica di Incipit srl e Inside Airbnb, erano 457.752 ad agosto 2019, cresciuti del 15,21% rispetto allo stesso periodo del 2018 (quando erano 397.314) e del 75,09% rispetto ad agosto 2017 (261.443 annunci). “Federalberghi -spiega in un comunicato il presidente, Bernabò Bocca- è intervenuta nel giudizio al fianco dell’Agenzia delle Entrate per promuovere la trasparenza del mercato, nell’interesse di tutti gli operatori, perché l’evasione fiscale e la concorrenza sleale danneggiano tanto le imprese turistiche tradizionali quanto coloro che gestiscono in modo corretto le nuove forme di accoglienza”.
Gli host non sono evasori, ma…
Federalberghi segnala che Airbnb avrebbe dichiarato al TAR, nell’ambito del giudizio concluso con la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio del 18 febbraio 2019, “di aver incassato circa 621 milioni di euro nel corso del 2016”. L’associazione di categoria degli albergatori stima perciò, sulla base delle informazioni rese pubbliche da Airbnb, in merito alle commissioni che incassa su ogni locazione, che da settembre 2017 ad oggi l’intermediario avrebbe “riscosso affitti per oltre 2 miliardi di euro ed abbia omesso di trattenere e versare al fisco italiano circa 430 milioni di euro”. Questo non significa ovviamente, che gli host di Airbnb siano evasori, perché tenuti comunque a versare al fisco quanto ricavato usufruendo dell’intermediazione dalla piattaforma, sulla base di note di rendicontazione che quest’ultima invia a fine anno. Il motivo principale del contendere, quindi, è un altro. Ci si avvicina a comprenderlo scoprendo che “l’ultimo bilancio pubblicato di Airbnb Italy srl evidenzia imposte pagate in Italia per l’anno 2018 per circa 2milioni di euro”; nello stesso anno, sempre secondo le stime di Federalberghi, “le somme incassate dal gruppo Airbnb a titolo di commissioni sugli affitti incassati nel nostro Paese possono essere stimate in oltre 138 milioni di euro”.
Il nodo è nell’intestazione del ricorso al Consiglio di Stato, che -come abbiamo visto- è proposto da Airbnb Ireland Unlimited Company ed Airbnb Payments Uk Limited, dove la prima ha sede in Irlanda, Paese Ue a fiscalità agevolata, che molte imprese multinazionali (come Google, o Facebook e appunto Airbnb) usano per ridurre il livello di pressione fiscale. Ecco quindi che l’articolo 4 (“Regime fiscale delle locazioni brevi”) del Decreto legge 50 del 24 aprile 2017, ed in particolare i commi 4 e 5, diventano un problema serio non perché introducono l’obbligo di cedolare secca, ma -secondo Airbnb- per “l’imposizione dell’obbligo di nomina di un rappresentante fiscale nello Stato in cui l’operatore economico europeo presta i propri servizi”. In pratica, è Airbnb Italia che dovrebbe agire da sostituto d’imposta, è nel nostro Paese che dovrebbero registrarsi tutti i contratti, è nel nostro Paese che Airbnb dovrebbe incassare le proprie commissioni di servizio, e -di conseguenza- pagare le tasse.
Il nodo della Costituzione
Secondo la società, però, “questo confligge con il principio di libera prestazione di servizi nella misura in cui costringe chi voglia svolgere un servizio in uno Stato diverso da quello di residenza”, perché le misure introdotte dal governo italiano “rappresentano un vincolo di natura operativa e funzionale per i soggetti come Airbnb che ne ostacola ingiustificatamente l’attività sul mercato e che mal si concilia con l’attività economica connessa alle locazioni brevi, caratterizzate da un numero ingente di contratti che richiedono una gestione rapida”.
La società nell’opporsi di fronte al Tribunale amministrativo regionale era addirittura arrivata a richiamare la Costituzione, ritenendo violati gli articoli 3 (“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”) e 41 (“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”).
“Confidiamo che la Corte di Giustizia metta fine a questa commedia, che vede Airbnb appigliarsi ad ogni cavillo pur di non rispettare le leggi dello Stato. Siamo stanchi di assistere a questa esibizione indecorosa dei colossi del web, che realizzano nel nostro Paese utili milionari ma dimenticano di pagare quanto dovuto al fisco italiano, con un comportamento a dir poco opportunistico” chiosa Federalberghi, con il presidente Bocca.
Questa casa (non) è un albergo
Nel gennaio del 2016, a proposito di Airbnb, scrivevamo su Altreconomia “Airbnb è nata nel 2008 proponendo un nuovo modello di ospitalità: chiunque poteva mettere a disposizione un letto, una stanza o la propria casa su un portale online, ospitare un turista e integrare così il proprio reddito. Sette anni dopo, forte di 2 milioni di annunci in 34mila città, 60 milioni di ospiti e un fatturato stimato di 900 milioni di dollari nel 2015, Airbnb è l’ennesimo attore della new economy che triangola i propri redditi tra i 190 Paesi in cui è presente, il Delaware (Stato a fiscalità agevolata degli Stati Uniti d’America) e l’Irlanda (Paese europeo a fiscalità agevolata)”.
L’articolo di Altreconomia evidenziava per prima la presenza di numerosi host professionisti, di soggetti che gestivano inserzioni multiple, e anticipava i temi della rivolta di alcune città europee alla diffusione della piattaforma. Oggi, l’analisi dei dati italiani di Airbnb, conferma ed evidenzia -secondo Federalberghi- le quattro grandi bugie della sharing economy: non è vero che si condivide l’esperienza con il titolare, perché più di tre quarti degli annunci (il 77,35%) si riferisce all’affitto di interi appartamenti, in cui non abita nessuno; non è vero che si tratta di forme integrative del reddito, ma attività economiche a tutti gli effetti, dato che più della metà degli annunci (il 63,13%) sono pubblicati da persone che amministrano più alloggi, con casi limite di soggetti che gestiscono più di 4.300 alloggi; non è vero che si tratta di attività occasionali, perché quasi due terzi degli annunci (il 61,5%) si riferisce ad alloggi disponibili per oltre sei mesi l’anno; non è vero che le locazioni brevi tendono a svilupparsi dove c’è carenza di offerta, perché gli alloggi sono concentrati soprattutto nelle grandi città e nelle principali località turistiche (dove è maggiore la presenza di esercizi ufficiali, ed è senz’altro per questo che Federalberghi ha preso così a cuore il tema).
La questione, quindi, non è solo la cedolare secca. Non è, come scrive Airbnb, la volontà di scaricare “su un’impresa le inefficienze dello Stato nell’accertamento e riscossione delle imposte”. Si parla di equità e giustizia fiscale. E ciò che il modello di cedolare secca dell’Agenzia delle Entrate potrebbe realizzare è solo un modello di country-by-country reporting, un sistema che permetterebbe di conoscere “per ciascun colosso imprenditoriale il numero dei dipendenti, le attività, i risultati, i profitti e le tasse dovute. Qualora, come accade talvolta, non dovessero esserci dipendenti o attività, si può domandare all’impresa il motivo di un risultato economico importante o di enormi profitti”. Il virgolettato non è di un attivista per la giustizia fiscale, per di Margrethe Vestager, commissaria europea alla Concorrenza fino al 2019 e oggi vicepresidente della Commissione europea.
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