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La Cina sul mercato, senza regole e senza democrazia

Il presidente cinese Xi Jinping - © AFP PHOTO / JOHANNES EISELE

La seconda economia del Pianeta, impegnata in campagne acquisti di dimensioni gigantesche, consoliderà tutti i propri caratteri illiberali e antidemocratici. L’Unione europea resta alla finestra. Il commento di Alessandro Volpi

Le voci di un forte interessamento cinese per Fiat Chrysler Automobiles rappresentano l’espressione evidente della decisa volontà proveniente dall’ex Impero Celeste di acquistare parti sempre più rilevanti dell’economia mondiale. Si tratta di un “espansionismo” che ha assunto negli ultimi due anni dimensioni prima sconosciute ed una velocità febbrile, presentando alcuni caratteri nuovi. 

1) Come accennato, la mole di operazioni di acquisto condotte da società cinesi in giro per il mondo ha toccato veri e propri record: il 2016 è stato, infatti, un anno incredibile che ha totalizzato acquisizioni per 244,6 miliardi di dollari, il doppio rispetto al già significativo impegno posto in essere nel 2015, con ben 51 operazioni che hanno superato il miliardo di dollari. Una larga parte di queste acquisizioni sono state portate a termine da società private cinesi, che si sono, almeno parzialmente, sostituite alle grandi compagnie di Stato. Dalian Wanda, Hna, il fondo finanziario Forsum e l’assicurazione Anbang hanno messo sul tavolo, negli ultimi due anni, circa 170 miliardi di dollari per comprare sui mercati internazionali asset bancari, imprese manifatturiere, miniere, catene di grandi alberghi e di cinema, squadre di calcio e diritti televisivi. Sono così diventate cinesi, solo per citare qualche esempio, il Waldorf Astoria di New York, gli Hotel Hilton, un pezzo rilevantissimo di Deutsche Bank, il Club Med e il Cirque du Soleil.

2) Il nuovo turbo-capitalismo privato cinese però ha continuato ad appoggiarsi alle pesanti strutture dell’economia pubblica, a cominciare dal sistema bancario, vera spinta propulsiva della crescita cinese e, al contempo, principale spina nel fianco della solidità di tale crescita. L’economia cinese, che ha ormai un Pil di 9mila miliardi di dollari, deve fare i conti con una vera e propria bolla creditizia, salita in pochissimo tempo al 260% di un simile prodotto interno, e con una brutale diminuzione delle riserve valutarie, crollate di 400 miliardi in meno di due anni.  Nel medesimo arco di tempo le sofferenze bancarie sono aumentate del 61%, raggiungendo i 231 miliardi di dollari, mentre la liquidità messa a disposizione delle imprese da parte delle banche cinesi raggiungeva il 50% dello stesso Pil del Paese: in estrema sintesi, le grandi società private cinesi hanno potuto fare shopping planetario utilizzando le munizioni fornite senza troppe attenzioni da una rete di istituti di credito che ha peggiorato drasticamente i propri conti, fidando sulla mancanza di qualsiasi tipo di controllo da parte della Banca centrale cinese e sulla piena accondiscendenza ad opera delle autorità politiche. Il ruolo dello Stato rispetto allo sviluppo economico cinese si è poi consolidato attraverso una pianificazione strategica ancora più definita e rigida, costruita sull’individuazione dei settori verso cui dovrà indirizzarsi il gigantesco flusso di investimenti privati delle aziende cinesi, a cominciare dalle infrastrutture, dalla “nuova via della seta”, dalle materie prime, dall’agricoltura e dalle tecnologie.

3) L’espansionismo economico cinese, che ha assunto dunque i caratteri della forte interazione fra pubblico e privato e che si regge sulla voluta mancanza di regole e controlli coerenti con le dinamiche dei mercati internazionali, sta prendendo forma in un clima politico interno sempre più autocratico: non pare esistere in questo senso alcun legame tra crescita economica e affermazione dei principi democratici. Anzi, il XIX Congresso del Partito Comunista cinese, che si terrà nel prossimo autunno, pare destinato a segnare un ulteriore rafforzamento della leadership di Xi Jimping, intenzionato a mettere definitivamente in soffitta l’idea della guida “collettiva” immaginata a suo tempo da Deng Xiaoping, per approdare ad un modello di distribuzione del potere fortemente verticistica, in cui le diverse fazioni interne del partito, legate alle diverse aree geografiche, troveranno il loro spazio in un accordo rigorosamente clientelare, garantito proprio dal potere assoluto di Xi Jimping, solerte a processare i suoi oppositori, compresi i grandi manager. Lungo tale strada la seconda economia del Pianeta, impegnata in campagne acquisti di dimensioni gigantesche, consoliderà tutti i propri caratteri illiberali e antidemocratici. Per questo appare indispensabile che l’Unione europea, in primis, si doti di strumenti in grado di contrastare simili acquisizioni, a cominciare da un “golden power”, per interdire gli investimenti provenienti da Paesi, come la Cina, che non rispettano le norme fondamentali del commercio internazionale e i principi della parità di trattamento riconosciuti universalmente. Non è davvero più pensabile che i processi economici rimangano separati dalla dimensione politica perché è ormai palese la stretta dipendenza della capacità della Cina di essere competitiva dalla sua continua violazione delle regole. Non ha senso la pretesa di esportare la democrazia, ma non si può rinunciare ad affermarne il valore insostituibile.

* Università di Pisa

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