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Abiti usati, abiti puliti
Alcune inchieste della magistratura hanno gettato ombre sul settore della raccolta di indumenti, mentre l’ultimo rapporto del Consorzio nazionale abiti e accessori usati (CONAU) stima la presenza di almeno 4 mila cassonetti abusivi in tutta Italia. Le 100mila tonnellate recuperate ogni anno nel nostro Paese valgono fino a 600 milioni di euro. Il punto di vista degli attori della filiera
Dalla finestra della redazione vedo un “cassonetto giallo”. È posizionato su un marciapiede di via Benaco, tra una scuola e la parrocchia. Serve a raccogliere indumenti e scarpe usate. Chi lo ha piazzato è “Città e salute”, una cooperativa sociale molto conosciuta a Milano, anche per il progetto Uroburo, un atelier di oreficeria artistica “per il reinserimento sociale”. Come molti dei soggetti che -in tutta Italia- si occupano di “gestire” la raccolta dei vestiti che i cittadini depositano all’interno dei cassonetti, “Città e salute” è una cooperativa di tipo B: alle finalità mutualistiche, tipiche della cooperazione, affianca quelle dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati.
È difficile immaginare un legame tra questo cassonetto (che è uno degli almeno 30mila “attivi” in tutta Italia) e le parole della Direzione nazionale antimafia, che nella relazione di gennaio 2014 scrive: “Buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà, finiscono per alimentare un traffico illecito dal quale camorristi e sodali di camorristi traggono enormi profitti”. Al rischio di infiltrazioni rimanda anche un lancio dell’agenzia Ansa, che intorno a metà gennaio 2015 ha toccato profondamente il settore. Diceva: “Traffico illecito rifiuti, 14 arresti” e ancora “Al vertice dell’organizzazione un boss della camorra”. Secondo l’accusa, gli indagati “rivendevano all’estero vestiti usati frutto di raccolta e senza prima trattarli”.
Per spiegare l’eventuale filo che lega il cassonetto giallo e la criminalità va raccontata una filiera, che è complessa: dopo la raccolta c’è il trasporto verso impianti di stoccaggio, poi viene la cernita e l’igienizzazione, attività che permettono di trasformare l’indumento usato-rifiuto in “bene”, e quindi di venderlo sul mercato (che può essere quello nazionale o uno estero). Per fare questo racconto in modo adeguato non è sufficiente leggere gli atti processuali dell’inchiesta romana, ma vale la pena ascoltare chi opera nel settore, perché è nei limiti organizzativi di un “mercato” relativamente nuovo (fino a vent’anni fa gli indumenti erano raccolti “porta a porta” da volontari o presso le parrocchie) che vanno cercate le maglie attraverso le quali sono passati gli illeciti.
Partiamo dall’inizio, la raccolta. Un dato: un solo “cassonetto giallo”, che in media raccoglie almeno 2mila chili all’anno, può fruttare (potenzialmente) fino a 12mila euro, e l’insieme degli indumenti raccolti in Italia ogni anno -100mila tonnellate- valgono fino a 600 milioni di euro.
Secondo le stime di Occhio del riciclone, l’organizzazione che ogni anno cura il rapporto “L’Italia del riutilizzo” il 70% di ogni chilo raccolto è materiale riutilizzabile, e di questo quasi il 90% è esportato in Paesi esteri dove il prezzo finale pagato oscilla tra i 2 e i 4 euro al pezzo, mentre un 10% -vestiti di “prima qualità” e cosiddetta “crema”- rimane in Italia, dove viene venduto tra l’euro e i 2 euro al pezzo.
L’insieme dà quello che Pietro Luppi di Occhio del riciclone (www.occhiodelriciclone.com) definisce “massimo valore estraibile”, calcolato in circa 6 euro al chilo.
Il dato sulla produzione media, “che negli ultimi due o tre anni, complice la crisi, si è abbassato a 1.800-2.000 chili, dai 2.500-3mila” ce lo offre Michele Pasinetti, direttore di Cauto (www.cauto.it), cooperativa sociale Onlus di Brescia, circa 500 cassonetti e mille tonnellate di indumenti raccolti ogni anno, con 10 persone impegnate ogni giorno nelle attività di svuotamento. È uno dei nostri interlocutori. Gli altri sono Vesti Solidale (www.vestisolidale.it), cooperativa di Cinisello Balsamo (MI) che fa parte della Rete RIUSE (Raccolta indumenti usati solidale ed etica) e in collaborazione con la Caritas Ambrosiana raccoglie oltre 8mila tonnellate di indumenti raccolte ogni anno, grazie a 1.300 contenitori; la Cooperativa Lavoro e solidarietà (www.cooperativals.it) di Torino, 6mila tonnellate; il Consorzio di cooperative Prisma -attivo a Vicenza e provincia- 1.200 tonnellate (www.prismavicenza.it); la Cooperativa San Martino di Firenze (che nel 2014 ha raccolto 1.473 tonnellate); la Fondazione Auxilium di Genova, promotrice con la Caritas diocesana del progetto “Lo Staccapanni” (www.staccapanni.it, 1.400 tonnellate).
“Il servizio di raccolta degli indumenti usati rientra nel più ampio e generale ‘servizio di raccolta rifiuti urbani’ ed è quindi da considerarsi servizio pubblico” ci ricorda Bruno Luigi Ardito, presidente della cooperativa Lavoro e solidarietà. La realtà torinese gestisce il servizio in alcuni Comuni dopo aver partecipato a gare ad evidenza pubblica, mentre in altri lo fa in virtù di convenzioni con gli enti locali. Gli “affidamenti diretti” sono realizzati sulla base della legislazione che riguarda le cooperative sociali e l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, la l. 381 del 1991.
Anche la “struttura” del bando di gara, quando viene fatta, è una variabile fondamentale: quella di Roma, in corso di aggiudicazione definitiva mentre questo numero di Altreconomia va in stampa, invitava i partecipanti a praticare “offerte al rialzo”. Ciò significa (1) che chi gestisce i cassonetti gialli riconosce un corrispettivo all’amministrazione o alla società che gestisce il servizio di giene urbana (e alcune cooperativa rifiutano in partenza questa “condizione”), e (2) che partendo da una “base d’asta” di 30 euro per cassonetto all’anno vince chi offre di più, e questo è l’unico criterio. “Alcune gare simili, in altre province del Lazio, sono state assegnate per 400 euro” spiega ad Ae Carlo De Angelis, coordinatore del Consorzio “Alberto Bastiani” (una delle associate, la cooperativa “Lapemaia”, è finita nell’inchiesta della Procura di Roma). “La raccolta degli indumenti -aggiunge De Angelis, segnalando un paradosso- è l’unico servizio di raccolta differenziata che non viene pagato. Anzi, è la cooperazione sociale a dover finanziare la municipalizzata”, nel caso specifico l’AMA.
Secondo Pietro Luppi questo tipo di gare possono portare a meccanismi distorsivi: “Il corrispettivo, in generale, porta entrate alle stazioni appaltanti -aggiunge Luppi ma riduce le risorse da destinare alla solidarietà”, che insieme alla creazione di opportunità di lavoro risulta un obiettivo fondamentale per la totalità delle realtà intervistate da Altreconomia. D’altra parte, sostiene Luppi, “sarebbe anche necessario un intervento legislativo per rendere obbligatorie gare ad evidenza pubblica in tutti i casi e per tutti i tipi di stazione appaltante. La parte sociale dovrebbe essere oggetto di misurazioni e rendicontazioni concrete”, perché solo la gara garantirebbe “la maggiore trasparenza nei criteri di selezione, dando i migliori frutti in termini di efficienza del servizio”. Occhio del Riciclone, spiega Luppi, “sta preparando un ‘Codice per gli attori della filiera’ e anche per le stazioni appaltanti, per far sí che etica, trasparenza, ecologica e solidarietá diventino parametri stringenti e verificabili”.
L’occupazione principale nella raccolta degli indumenti usati riguarda lo svuotamento dei cassonetti. Quelli posizionati su suolo pubblico sono autorizzati dal Comune. In media, uno per 1.500-2mila abitanti. A ogni nuova gara o convenzione, così, corrisponde per la cooperativa un investimento, che è importante: un singolo cassonetto può costare tra i 450 e i 600 euro, per i più moderni, quelli di dotati della migliori tecnologie in termini di sicurezza (per evitare l’intrusione di persone), un sistema di rilevazione che permette di vedere se il cassonetto è pieno, e una cesta, dentro cui si raccoglie il materiale, che può così essere estratto con un muletto.
Solo Vesti Solidale assicura di essere proprietaria di tutti i 1.300 cassonetti (progettati e realizzati da una cooperativa).
Francesco Grazi della Cooperativa San Martino di Firenze, che raccoglie indumenti a Firenze e in undici Comuni dell’hinterland (www.caritasfirenze.it/cooperativa-san-martino/progetto-ri-vesti-abiti-usati.html) ci porta invece un altro esempio: “Siamo proprietari dell’80 per cento dei cassonetti, mentre il resto è in comodato da uno dei soggetti che commercializza gli indumenti che raccogliamo, che si fa carico anche della manutenzione. La merce raccolta nei loro cassonetti la portiamo a loro”.
In casi del genere, l’acquirente può negoziare con più facilità anche il prezzo di ritiro, che negli esempi raccolti oscilla tra 0,28 e 0,40 euro al chilo.
Quando escono dalla disponibilità delle cooperative gli indumenti usati -che fino a quel punto sono ancora “rifiuti”- possono diventare merce, e produrre ricchezza.
Per capire perché tutti i vestiti non possono essere destinati agli indigenti, basti un dato: 8 milioni di chili di abiti raccolti da Vesti Solidale corrispondono a circa 40 milioni di “pezzi”, cioè quattro vestiti a testa per ogni cittadino lombardo, anche i benestanti.
Un terzo degli indumenti raccolti in Italia vengono acquistati da un unico soggetto, che si chiama Tesmapri spa ed è un’azienda di Montemurlo (Prato). Per fare alcuni esempi, Cauto cede a Tesmapri circa il 70 per cento degli indumenti raccolti. Nel caso della Cooperativa San Martino, la percentuale scende al trenta. La Fondazione Auxilium lo indica come “il principale acquirente”. Tesmapri acquista circa il 50 per cento degli indumenti raccolti dalla Rete RIUSE, mentre il Consorzio Prisma non ci ha fornito informazioni in merito. Solo la Cooperativa Lavoro e solidarietà di Torino vende tutto a un altro soggetto, che si chiama Recotes srl ed è un’azienda di Verolengo (TO).
Recotes dispone delle autorizzazioni provinciali specifiche per arrivare fino a commercializzare i vestiti (tecnicamente, per la “messa in riserva (R13) e recupero mediante igienizzazione (R3) del materiale stesso”, mentre Tesmapri non ha necessità di disporre di queste autorizzazioni. Ce lo conferma Edoardo Amerini, uno degli azionisti della società: “Il nostro è un anello di congiunzione tra le cooperative sociali che fanno raccolta e i soggetti che fanno selezione e cernita”. Aggiunge: “Vendiamo su due mercati, Napoli e Prato, ma quello che esce dal nostro capannone è ancora rifiuto, e siamo obbligati a far sì che il soggetto cui conferiamo il materiale abbia impianti a norma”.
Tesmapri fattura oltre dieci milioni di euro. Il margine è “del 5-6%” spiega Amerini, ed è fatto sui “volumi, sulla massa intermediata”. È nei seguenti anelli della filiera -cernita, igienizzazione, commercializzazione- che si concentra la parte più importante del valore e del profitto estraibile dagli indumenti, circa il 90 per cento. Almeno in passato, tra i soggetti con cui Tesmapri ha attivato relazioni -nell’ambito delle intermediazioni realizzati per conto di almeno una realtà della cooperazione sociale intervistate da Ae-, ce ne sono un paio finite in seguito al centro di inchieste giudiziarie “censite” nel rapporto Ecomafie 2014 di Legambiente. Sono la New trade srl di Prato e la Eurotrading International srl, con sede sempre nel capoluogo al centro del distretto toscano del tessile. Le inchieste riguardano lo “smaltimento illecito di indumenti usati” ma non solo: i titolari di Eurotrading International sono stati arrestati nell’estate del 2013 con le accuse di usura ed estorsione aggravate e rinviati a giudizio nel primo trimestre del 2014 -si legge nella relazione della DNA presentata il 24 febbraio 2015- “per una complessa ipotesi di delitti associativi di cui all’art 416 bis”, cioè l’associazione mafiosa. “Siamo un’azienda che ha 50, 60 clienti in Italia -dice Amerini-: facciamo del nostro meglio, ma questi controlli spettano ai soggetti preposti, che dovrebbero eventualmente togliere certi soggetti sul mercato. Se uno ha le autorizzazione e i permessi, non possiamo negare la vendita di materiale”. Anche alcuni dirigenti di Tesmapri (e tra loro anche Amerini) sono stati rinviati a giudizio (nell’autunno del 2013) per aver commercializzato rifiuti, cioè indumenti che non erano passati né per la cernita né per l’igienizzazione. “La prima udienza è fissata a luglio 2015 -racconta Amerini-, e ci difenderemo nel merito”. Spiega di lavorare nel settore da 40 anni, e di collaborare con le Caritas di tutto il Centro-Nord Italia. —
Da "rifiuto" a "vestito usato"
Gli indumenti raccolti nei cassonetti gialli diventano “vestiti usati” dopo un processo di igienizzazione, volto a far scendere la “carica batterica”. In merito a questo processo, gli operatori del settore evidenziano due “incongruenze”. La prima è che le modalità per realizzare l’igienizzazione dipendono da ogni singola Provincia, e non esistono delle linee guida nazionali. La seconda è che in Europa il nostro è l’unico Paese a prevedere questo intervento, un processo complesso che porta gli operatori della cooperazione sociale a vendere il “rifiuto tal quale”. Vesti Solidale, che a Milano in via Padova 36 ha aperto il negozio “SHARE (Second HAnd REuse)”, il primo negozio di abbigliamento di qualità di seconda mano con finalità sociali, non vende indumenti raccolti in città, ma gli acquista. La cooperativa bresciana Cauto ha invece avviato un piccolo laboratorio che “seleziona” e igienizza meno del 10 per cento del totale degli indumenti raccolti, poi rivenduti all’interno del negozio “Spigolandia”.