Diritti / Attualità
La ricerca della giustizia per i lavoratori del settore tessile
“Di chi è la responsabilità della morte di chi cuce i nostri abiti?”. Si è conclusa la “Week of Justice” promossa da Abiti Puliti, per chiedere giustizia per le vittime dell’incendio avvenuto nel 2012 nella fabbrica tessile Ali Enterprises, in Pakistan. Una mobilitazione che continua nel solco dei diritti dei lavoratori, anche per chiedere al gruppo H&M di rispettare gli impegni presi sull’equità dei salari
Prima di farvi tentare dal pullover da 19,99 euro -uno dei “regali perfetti” proposti sul sito di H&M-, soffermatevi per un attimo a leggere il testo della campagna “Turn Around, H&M!” (che in pochi mesi ha già raccolto oltre 142mila firme), per chiedere salari dignitosi e giuste condizioni di lavoro in tutta la catena del gigante svedese della fast fashion.
Sono passati cinque anni, infatti, da quando il gruppo H&M ha annunciato nel documento “H&M’s roadmap towards a fair living wage in the textile industry”, che tutti i suoi “fornitori strategici (…) dovranno adottare modelli retributivi tali da garantire entro il 2018 la corresponsione di salari dignitosi, un provvedimento che interesserà a quella data 850.000 lavoratori dell’abbigliamento” (ne avevamo scritto lo scorso settembre). Un obiettivo mancato, nonostante sia la stessa multinazionale a definire il salario equo “un diritto umano fondamentale”. “Anche se stiamo già facendo progressi per quanto riguarda i livelli salariali, aumenti salariali significativi dipendono interamente dal fatto che il lavoro svolto nelle singole fabbriche sia accompagnato da soluzioni di settore, come i contratti collettivi”, ha scritto H&M sul suo sito pochi giorni fa, in seguito al Fair Living Wage Summit che si è svolto a Phnom Penh, in Cambogia.
Per riportare ancora una volta l’attenzione sul mancato impegno di H&M nel corrispondere a 850mila lavoratori tessili un salario dignitoso, gli attivisti della Clean Clothes Campaign hanno manifestato in tutto il mondo la scorsa settimana: da Delhi in India al paese di Stradella, in provincia di Pavia, dove ha sede uno dei principali poli della logistica di H&M, gestito dall’azienda Xpo Logistics. “Nell’enorme magazzino in cui lavoro, che all’epoca (2016, ndr) occupava 350 persone, per la maggior parte donne e stranieri, il turno iniziava alle 4.30 della mattina con nessuna certezza dell’orario di uscita. Tutto era possibile, 4 ore di lavoro come 12, e un semplice sms, inviato la sera, fissava il tuo turno per il giorno dopo”, ha scritto una lavoratrice del polo di Stradella, da dove partono i prodotti H&M per 18 Paesi del mondo.
Il tema di un salario dignitoso è solo uno dei nodi nella trama dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori dell’industria tessile. La settimana prima della mobilitazione internazionale nei confronti di H&M, la Campagna Abiti Puliti aveva promosso la “Week of Justice”, una settimana di eventi per chiedere giustizia per le vittime del tragico incendio all’Ali Enterprises di Karachi, nel sud del Pakistan, la fabbrica tessile dove l’11 settembre 2012 morirono 250 operai e operaie. “Di chi è la responsabilità della morte di quelle persone che stavano cucendo i nostri abiti?”, non si stanca di chiedere Abiti Puliti, che ha ripreso la simulazione video realizzata da Forensic Architecture per l’European Center for Constitutional and Human Rights per mostrare come “sarebbero stati sufficienti piccoli miglioramenti alla sicurezza” per salvare le vite di chi era al lavoro nella fabbrica.
La sicurezza dei luoghi di lavoro è uno dei temi su cui si è concentrata la visita in Europa dei rappresentanti dell’“Ali Enterprises Factory Fire Affectees Association” (AEFFAA) -una rete di 200 persone, tra sopravvissuti e familiari delle vittime dell’incendio, nata con il sostegno della federazione sindacale “Pakistani National Trade Union Federation”- per la “Week of Justice”. In Italia l’AEFFAA ha incontrato i responsabili del Punto di Contatto Nazionale OCSE, per rivendicare risarcimenti adeguati, ma soprattutto chiedere “cambiamenti strutturali e duraturi nelle filiere globali dell’industria tessile -come spiega Abiti Puliti-, dai paesi di produzione a quelli da cui provengono gli ordini di acquisto e fino alle aziende di certificazione”.
In questo senso, si stanno accertando anche le responsabilità dell’azienda italiana di auditing Rina Services spa che, nell’agosto 2012, poco prima dell’incendio mortale, aveva rilasciato all’Ali Enterprises la certificazione SA8000, che dovrebbe attestare il rispetto di standard corretti in materia di sicurezza e di condizioni lavorative. “L’ispezione che ha dato origine alla certificazione era stata condotta non direttamente da Rina, ma da un’azienda terza pachistana”, specifica Abiti Puliti. Un caso sul quale la magistratura italiana ha aperto un’indagine in seguito a un esposto depositato nel 2014 da AEFFAA, presso il tribunale di Genova, la cui ultima udienza nelle indagini preliminari si è svolta lo scorso settembre.
(20 dicembre 2018) In seguito alla pubblicazione dell’articolo, Altreconomia è stata contattata dall’ufficio comunicazione di H&M. Riportiamo di seguito le dichiarazioni dell’azienda, tratte da un comunicato pubblicato in seguito al Fair Living Wage Summit 2018.
Durante il Summit, e a cinque anni dall’avvio della strategia di H&M sul salario minimo, l’Ethical Trading Institute ha presentato una valutazione indipendente condotta sull’azienda. “Siamo in continuo dialogo con gli stakeholder e gli esperti di settore, sia per garantire che gli obiettivi del nostro lavoro vengano rispettati, sia per definire un modo comune a tutto il settore di affrontare queste sfide”, si legge nel comunicato della casa di moda. “La nostra strategia si basa sul creare processi che rendano possibili negoziazioni eque e che permettano all’intera industria di trasformarsi, attraverso cooperazioni di settore. Il lavoro che portiamo avanti negli stabilimenti produttivi procede di pari passo con il nostro sostegno all’intero settore”.
A livello degli stabilimenti, H&M dichiara di “aver raggiunto e superato i due obiettivi presentati nel 2013”: “dare potere agli operai del settore tessile garantendo loro l’appoggio da parte di rappresentanti democraticamente eletti” e “implementare il sistema manageriale per garantire che i fornitori applichino sistemi trasparenti ed equi e che i lavoratori tessili sappiano in che modo funzionano i meccanismi di definizione e aumento dei salari. Grazie al lavoro svolto negli stabilimenti, abbiamo raggiunto 930.000 lavoratori tessili”.
“Nel corso di questi cinque anni abbiamo migliorato anche le nostre procedure di acquisto, evitando cambiamenti dell’ultimo minuto, e garantendo che i costi di manodopera siano esclusi dalle negoziazioni con i fornitori -continua il comunicato-. In questo modo i costi della manodopera sono bloccati e non rientrano nelle negoziazioni e i salari dei lavoratori non sono negativamente influenzati dalle trattative sul prezzo dei prodotti. Chiediamo ai nostri fornitori, tramite dei sondaggi, in che modo ci possiamo migliorare e oggi il 93% di loro ci ritiene un partner commerciale equo. Abbiamo stretto delle collaborazioni che offrono la possibilità di trasformazione di tutto il settore”. In questo senso, l’azienda dichiara di “favorire l’adozione di accordi di contrattazione collettiva, supportati da procedure di acquisto responsabili”: accordi che “saranno negoziati dagli attori direttamente interessati, ovvero i sindacati e i datori di lavoro, e andranno a sostituire il meccanismo del minimo salariale che si è dimostrato inadatto a innalzare le retribuzioni ad un livello dignitoso”.
“Sottoscrivendo il Memorandum d’intesa sulle procedure di acquisto responsabili, ci impegniamo a rimanere nei Paesi coinvolti in un processo di costante crescita salariale tramite un accordo di contrattazione collettiva. Promettiamo inoltre di tenere conto degli aumenti salariali nelle negoziazioni di acquisto. Né i Paesi né i fornitori devono correre il rischio di perdere lavoro o competitività a causa di aumenti salariali”.
Dal punto di vista dei salari, “affinché possa avvenire un aumento significativo delle retribuzioni occorre che il lavoro svolto presso i singoli stabilimenti sia accompagnato da accordi di contrattazione collettiva in tutto il settore”. In questo senso, “l’iniziativa ACT renderà possibile e realistico creare parità di condizioni e consentire enormi passi in avanti in tema di retribuzioni”. L’azienda scrive che “il salario medio negli stabilimenti di produzione dei fornitori del Gruppo H&M è superiore del 24% (Cambogia) e del 93% (Cina) rispetto al minimo salariale. Inoltre, il livello salariale presso i 500 stabilimenti che stanno migliorando i propri sistemi di gestione dei salari è del 2% (Turchia) e dell’11% (Indonesia)superiore rispetto agli altri stabilimenti non ancora coinvolti in questi programmi”.
“Il lavoro continua. Il nostro impegno per raggiungere salari dignitosi è più forte che mai, porteremo nel nostro lavoro in futuro le lezioni apprese dalle nostre esperienze. Insieme ai nostri partner, avremo la possibilità di andare oltre i goal raggiunti negli stabilimenti per creare un cambiamento sistemico per tutti gli operai tessili del settore”, conclude H&M.
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