Diritti / Opinioni
La bancarotta dei diritti umani
In nome della sicurezza contro rischi di “tenuta democratica” si è affermata una prassi di non-diritto. Che cosa resta dell’estate 2017, a dir poco disumana. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci
Mauro Barberis, in un libro dedicato -come dice il sottotitolo- al “fallimento della politiche antiterrorismo” (“Non c’è sicurezza senza libertà”, Il Mulino 2017), ci ricorda, con Henry Shue, che “in materia di diritti umani i progressi sono essenzialmente consuetudinari: non si misurano, cioè, sui principi solennemente dichiarati nei trattati, ma sulle prassi degli Stati e delle agenzie internazionali”. L’orologio dei diritti, dunque, può arretrare d’un colpo, eclissando conquiste di civiltà che parevano indice di sicuro progresso: basta una Guantanamo per riportare in auge la pratica della tortura. L’ultimo quindicennio, quello della “guerra al terrore” dichiarata da George W. Bush, ha messo a soqquadro i fragili equilibri del sistema giuridico di tutela dei diritti umani. Dal “Patriot Act” in poi, dice Barberis, i governi hanno agito con finalità prevalentemente simboliche e di ricerca del consenso, visto che le limitazioni dei diritti individuali sono pressoché ininfluenti, se l’obiettivo è garantire la sicurezza personale dei cittadini (il rischio soggettivo d’essere vittima di un raid terroristico era e resta infinitesimale).
7: i marittimi -comandante ed equipaggio di un peschereccio- indagati dalla procura di Agrigento per il mancato soccorso a un barcone di migranti davanti all’isola di Lampedusa il 3 ottobre 2013. Morirono affogate 366 persone
Quest’estate il governo italiano -con l’appoggio delle istituzioni europee- ha impresso una decisa svolta alle sue “politiche dell’immigrazione”, chiudendo di fatto la rotta d’accesso all’Europa che passa dal Mediterraneo centrale, con atti pubblici e meno pubblici di grande impatto: prima la legge Minniti-Orlando, poi il codice imposto alle Ong per limitarne l’azione di salvataggio in mare, infine gli accordi con il governo fantoccio di Tripoli (Al Serraj) e i vari “signorotti” che si dividono la Libia (eufemisticamente definiti “sindaci”). D’ora in poi i migranti non potranno lasciare gli orribili campi di detenzione libici, gestiti in buona parte (non gratuitamente, a giudicare dalle denunce giornalistiche sui milioni di euro versati dai nostri servizi segreti) dagli stessi gruppi che prima si occupavano degli imbarchi per Lampedusa. L’operazione Libia, a ben vedere, è una versione più confusa e meno limpida, ma altrettanto cinica, dell’accordo stretto fra Ue e Turchia per chiudere il corridoio balcanico, con l’impegno di Bruxelles di versare fino a sei miliardi di euro nelle casseforti di Recep Tayyp Erdogan. Denaro in cambio della detenzione extra legem di corpi indesiderati.
Siamo alla bancarotta dei diritti umani. Questi accordi lasciano sul terreno molte vittime: persone che muoiono, persone private della dignità, persone usate e schiavizzate. Resta sul terreno anche il sistema normativo di tutela dei diritti umani. Una nuova prassi di non-diritto si sta instaurando, sempre in nome della sicurezza o per affrontare “rischi di tenuta democratica delle istituzioni”, secondo la paradossale affermazione del nostro Minniti. Il tutto -ancora una volta- per ragioni prevalentemente simboliche, visto che non siamo alle prese con una reale “emergenza migratoria” e tanto meno con “un’invasione”. Del resto, proprio il linguaggio di derivazione militare utilizzato per raccontare i flussi migratori -invasione, assedio, blocco navale, pattugliamento- è rivelatore della continuità fra l’attuale guerra ai migranti e l’iniziale guerra al terrore. Barberis chiude il suo libro indicando i tre obiettivi che si era prefisso: fornire strumenti di analisi razionale; criticare le politiche standard della sicurezza e infine “de-mistificare, dis-incantare, gli idoli della sicurezza, contribuendo a una sorta di catarsi morale”. Una catarsi necessaria dopo un’estate a dir poco disumana.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
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