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Esteri / Reportage

A Mosul ho visto persone morire per un pugno di farina

L'ospedale da campo di Medici senza frontiere ad Hammam al-Alil, una ventina di chilometri a Sud di Mosul.

Seconda puntata del diario dall’Iraq di un medico di Msf: stretti tra i miliziani del Daesh e i bombardamenti della coalizione ci sono 100-150mila civili intrappolati in città. Solo pochi fortunati riescono a fuggire per farsi curare. O per morire con dignità

Tratto da Altreconomia 195 — Luglio/Agosto 2017

Il tempo in missione è strano. Scorre veloce come l’acqua tra le dita, ma è denso come un caffè turco. Prima di fare ritorno alla vita normale, andrebbe lasciato sedimentare e sorseggiato con calma, assaporato tenendo in bocca un cristallo di zucchero che ne stemperi il gusto amaro. La quotidianità però mi sta già attendendo, cannibale, oltre la porta scorrevole dell’aeroporto. I ricordi rimarranno custoditi nel cuore, da cui riemergeranno, alcune volte senza farsi preannunciare, nei giorni a venire.

Per ora però, ancora per qualche ora, è un tempo tutto mio e posso lasciare che le emozioni, ancora fresche, salgano fino agli occhi e annebbino la vista. Ho appena riattraversato il Tigri, lungo quella stessa strada che taglia la Mesopotamia percorsa quattro settimane fa. È pomeriggio inoltrato, fa caldo. Le ultime ore sono state le più difficili. Mi addormento, sogni confusi mentre cerco come appoggiare la testa sul sedile del fuoristrada. Una buca nell’asfalto mi risveglia e un cartello stradale mi riallaccia alla realtà.

Ho lasciato da poco più di un’ora Hammam al-Alil, il paese a Sud di Mosul dove abbiamo montato il nostro ospedale da campo. Due sale operatorie dove curiamo le vittime dei cecchini di Daesh (il sedicente Stato Islamico) e dei mortai della coalizione. Sono intrappolati in 100.000, forse 150.000, nel centro storico di Mosul ovest, l’ultimo rifugio dei miliziani del Daesh. L’esercito, settimana scorsa, attraverso il lancio di volantini dal cielo, ha esortato gli abitanti a fuggire, lasciando intendere la volontà di un attacco finale che non farà prigionieri. Molti degli abitanti, però, sono prigionieri nello loro stesse case, utilizzati come scudi umani: famiglie divise e tenute rinchiuse in casa sotto la minaccia delle armi, porte saldate dall’esterno, reti metalliche distese lungo i vicoli per segnalare ai cecchini il rumore dei passi di chi fugge. I feriti arrivano a ondate, senza alcuna sequenzialità temporale con i bombardamenti: vengono trasportati in ospedale non in base a quando sono stati colpiti, ma solo quando riescono a raggiungere un mezzo di soccorso. Così è stato ieri pomeriggio.

Al mattino aveva visitato il PHCC, il nostro centro di salute primaria, l’equivalente di un poliambulatorio di medicina di base. Vi si rivolgono 300-400 persone al giorno. Alle 9 di mattina, al riparo dal sole sotto una tenda, c’era già una coda lunghissima di donne, tutte avvolte nei loro abiti neri, e di bambini colorati.

Una donna anziana ha avuto una sincope. È malata di cuore e la disidratazione, dovuta al caldo e a una gastroenterite intercorrente, hanno potenziato l’effetto dei farmaci che prende abitualmente per la pressione del sangue. Una ragazza ha delle ustioni profonde alle gambe che si sono infettate. Un bimbo ha tosse e febbre alta, fa fatica a respirare, sicuramente una polmonite. Un uomo anziano soffre di diabete e da qualche giorno il suo piede sinistro è dolorante e freddo: l’alluce è gia nero. Sono tutte condizioni cliniche che si potrebbero incontrare anche in Italia. A Mosul, prima della guerra, queste persone avrebbero trovato cura in uno degli ospedali della città, ma ora non sanno dove rivolgersi.

Un intervento chirurgico svolto dall’équipe di Medici senza frontiere all’interno del “Must”, un tir appositamente attrezzato ©Msf

Quelli che invece da noi non ho mai incontrato sono i bambini malnutriti: tantissimi vengono portati qui in condizioni drammatiche. Ho visto una bimba di 6 mesi che pesava 3.500 grammi, la metà di quello che dovrebbe essere alla sua età. Un volto scavato da adulto, gli occhi vispi, nel corpicino di una neonata. Un altro invece aveva gli occhi chiusi, era in coma per il basso livello di zucchero nel sangue. La mamma ha raccontato che lei non aveva latte per allattarlo e che solo i bambini delle famiglie del Daesh avevano diritto a ricevere il latte in polvere.

La maggior parte degli ospedali di Mosul è stata danneggiata o distrutta. Alcuni sono stati devastati e incendiati dalle milizie Daesh durante la loro ritirata. Il sistema sanitario è stato azzerato e, nonostante qualche timido segna di ripresa, ci vorranno mesi per riportarlo in piena efficienza. Soprattuto ci saranno persone che avranno bisogno di terapie per diversi mesi. Alcuni sono stati trattati in centri di cura improvvisati e in condizioni di scarsa sterilità e avranno bisogno di essere curati per lungo tempo per guarire dalle infezioni. Molti avranno bisogno di fisioterapia e tantissimi di supporto psicologico che, probabilmente, non avranno mai. I bisogni di salute sono enormi. Stiamo cercando di prevedere quali saranno le maggiori necessità nelle prossime settimane, per integrare il programma di chirurgia di guerra con un secondo progetto e il PHCC ci aiuta anche in questo. Molto probabilmente apriremo un centro per la malnutrizione infantile.

Dicono che si fosse sparsa la voce che distribuissero della farina. In molti sono accorsi per averne  un po’. Sono stati presi in pieno da una granata

Nel pomeriggio appena rientrato in ospedale, la nuova ondata di feriti, giunti da un quartiere del centro di Mosul: non riesco a ricordare i nomi dei luoghi, così come non ricordo i nomi dei pazienti di quel pomeriggio. Ho ben in mente, però, gli sguardi di ciascuno di loro. Due donne, tre bambini e un uomo. Mi piace chiamarla “la piccola strage della farina”, a memoria della strage del pane di Sarajevo, perché le guerre fanno tutte schifo allo stesso modo. Dicono che si fosse sparsa la voce che distribuissero della farina. In molti sono accorsi per averne un po’ per la propria famiglia. Sono stati presi in pieno da una granata.

La prima ragazzina ha 8 anni. Capelli lunghi, neri come gli occhi. Una scheggia le ha trapassato l’addome e le ha bucato l’intestino. Piccole lacerazioni che il chirurgo ha riparato senza difficoltà. Starà bene.

Una madre, quattro figli, è stata più sfortunata. Sguardo terrorizzato di chi sta male ma ce la deve fare. Anche a lei una scheggia ha bucato l’intestino, ma ha fatto molti più danni causandole un’emorragia gravissima. L’intervento non è potuto essere risolutivo. Durante la notte le sue condizioni sono peggiorate e ha sviluppato uno stato di sepsi. Abbiamo deciso di riportarla in sala operatoria questa mattina, consapevoli che sarebbe stata dura, ma ci abbiamo provato lo stesso: lo dovevamo ai suoi quattro bimbi. Abbiamo finito l’intervento, ma ormai avevo capito che non l’avrei mai più risvegliata. Gli ospedali da campo obbligano a fare delle scelte, sai già a priori che alcune condizioni non le potrai curare, ma poi queste condizioni ti si presentano lo stesso. So che in Europa, con una terapia intensiva avanzata, avrei potuto fare di più per restituire una mamma ai suoi bambini, qui no, in un ospedale da campo non possiamo permettercelo, e brucia, brucia tanto. Ho aspettato in sala operatoria, insieme al mio infermiere di anestesia e al mio amico chirurgo iracheno, che il suo cuore smettesse di battere.

Alla seconda bimba, 4 anni, capelli ribelli, una scheggia ha distrutto il femore. È stata medicata in un TSP (Trauma stabilization point), un punto di primo soccorso vicino alla linea del fronte e mandata da noi. Quando è arrivata aveva tanto male. Ci siamo resi conto che, oltre al femore, era stata distrutta anche l’arteria femorale, il vaso che porta il sangue a tutta la gamba. L’arto era freddo per l’ischemia, probabilmente già da diverse ore. L’abbiamo portata subito in sala operatoria. Quattro ore di intervento per ricostruire l’arteria danneggiata e permettere al sangue di arrivare fino al piede. L’ho svegliata che fuori albeggiava. Solo nei prossimi giorni i miei colleghi capiranno se il nostro intervento è stato in grado salvarle almeno un pezzo di gamba.

La seconda donna è arrivata in condizioni abbastanza stabili. Era ancora sufficientemente energica da poter urlare contro la nostra infermiera svizzera che voleva rimuoverle il reggiseno. Il pudore prima di tutto. Le abrasioni sull’addome non potevano però lasciarci tranquilli: se l’è cavata con l’asportazione della milza, spaccata in due. È l’unica dei sei personaggi di questo racconto che questa mattina abbia visto sorridere.

Il bimbo, 3 anni, è stato investito dalla forza dell’esplosione. Me lo hanno portato in sala che era sveglio, la pelle di un braccio e della gamba penzolante come stracci sporchi di terra. Era tranquillo. Continuava solo a ripetere la stessa frase: “Ho sete”. Abbiamo fatto il primo trattamento chirurgico e, questa mattina, lo abbiamo trasferito in un centro per ustionati gestito da un’altra ONG. Se la caverà, anche se avrà bisogno di tante operazioni.

Alla fine c’è un uomo. Lui non era alla strage della farina. Era in carcere, nel centro di detenzione di Hammam al-Alil, in attesa di un processo. È uno dei tanti sospettati di essere complice di Daesh. Qualche centinaio di persone stipate in una stanza senza finestre, dormono a turni perché non c’è spazio per coricarsi tutti insieme. È stato torturato con la corrente elettrica fino a distruggergli i reni.

È uno dei dilemmi che si affrontano nei Paesi in guerra: è giusto curare un prigioniero, sapendo che rimetterlo in salute significa riconsegnarlo ai suoi aguzzini? Questo ragazzo ha la metà dei miei anni. Non so di che cosa sia sospettato. Forse ha picchiato, stuprato e ucciso una ragazzina yazida, magari invece non ha alcuna colpa. Io ho solo visto davanti a me un ragazzo rattrappito e con gli occhi vuoti, incapace di bere da solo e che faticava a parlare. Abbiamo provato, per due volte, a trasferirlo nell’unico ospedale di Mosul che abbia macchine per la dialisi. Ce lo hanno rimandato indietro. Magari avevano tanti altri casi da trattare, magari non hanno voluto prendersi in carico un prigioniero: che cosa significa per un medico o per un infermiere di Mosul decidere di salvare la vita di chi ha trasformato la città in un inferno? Io non lo riesco a immaginare. Ho fatto l’unica cosa che potevo fare per un uomo che stava morendo per mancanza di aria, alleviare le sue sofferenze. Medicina palliativa, questa la si può fare ovunque, basta un po’ di pietà. Ho aspettato che smettesse di respirare prima di salire sulla macchina per ritornare a casa. Solo dopo aver abbracciato forte, però, il mio infermiere iracheno, che ha vissuto con me questo ultime ore di compassione: è questo il volto dell’Islam che voglio riportarmi a casa.

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