Esteri / Opinioni
Il “protezionismo” di Trump è inquinante e xenofobo
La difesa del “made in Usa” secondo il nuovo presidente -che predica la chiusura delle frontiere, alimentando l’intolleranza- passa per deroghe agli standard ambientali e sociali delle imprese. Ma “è davvero poco comprensibile immaginare che ogni Paese possa crescere solo con le proprie idee ‘nazionali’ e privato dell’apporto delle migliori intelligenze cosmopolite” scrive Alessandro Volpi
È davvero possibile che il mondo abbandoni l’era della globalizzazione in nome di un brusco ritorno al protezionismo? Parrebbe proprio di sì, ma questo non significa, in maniera automatica, il riemergere di modelli economici e sociali già conosciuti.
Il protezionismo del nuovo secolo sembra caratterizzato infatti da due elementi originali, quantomeno nelle loro dimensioni. Il primo è rappresentato dall’inevitabile sacrificio di ogni forma di tutela ambientale. Se la globalizzazione aveva trovato uno dei propri cardini portanti nell’abbattimento del costo della forza lavoro, perseguito attraverso lo spostamento di fasi produttive nelle zone del Pianeta dove tale costo era più basso, il nuovo protezionismo vorrebbe impedire questa delocalizzazione. Per evitare la fuga delle imprese, dovrebbe quindi consentire ad esse di recuperare la perdita di competitività determinata dall’aumento del costo della manodopera, divenuta nazionale, con la riduzione di altri costi.
Il primo di tali costi da ridurre proviene dai vincoli ambientali posti alle produzioni da stringenti normative che sono state adottate da vari anni in numerosi Paesi. Non è un caso che tra le prime mosse di Trump figuri la decisione di rendere assai più complesso il trasferimento di imprese fuori dagli Usa, accompagnata però da una esplicita condanna, da parte dello stesso presidente, degli “eccessi” dell’ambientalismo.
Gli Stati Uniti si candidano così a divenire, in maniera ancora più marcata, il più grande inquinatore mondiale, smantellando l’impianto dei vari Clean Air Act, derubricati ad inutili intralci, adottati, in particolare, durante le presidenze Clinton.
Al sacrificio ambientale, nell’obiettivo di evitare la fuga delle imprese e dei capitali, pare associarsi la volontà di ridurre il carico fiscale sul lavoro soprattutto sul versante dei contributi versati dalle aziende. Ciò comporta una riduzione delle risorse a disposizione degli interventi dello Stato sociale, in molte realtà già da tempo assottigliate, che dovranno essere necessariamente sostituite da servizi privati, pagati dai lavoratori “nazionali” divenuti più ricchi.
In altre parole, il nuovo protezionismo punta sulla riduzione delle tutele ambientali e delle tasse sulle imprese perché queste ultime accettino le barriere che impediscono loro di investire all’estero, nella speranza di un significativo miglioramento del reddito dei lavoratori e di un incremento della ricchezza nazionale tale da non depauperare troppo le risorse pubbliche. In questa prospettiva il protezionismo porterà con sé una condizione, un po’ paradossale, in cui una maggiore presenza dello Stato, che assumerà contorni quasi autarchici sul versante della protezione del mercato e della natura autoctona della forza lavoro, si abbinerà alla scomparsa di regole di civiltà in materia ambientale e di legislazione sociale.
Il secondo elemento di questa nuova fase, che in buona misura si lega al primo, sarà costituito da una rapida crescita dei livelli di intolleranza e di xenofobia legalizzata. Se l’obiettivo è privilegiare i lavoratori nazionali, allora bisogna chiudere gli accessi a tutti gli altri senza troppa attenzione ai motivi che li hanno indotti a lasciare il loro Paese.
Anzi il richiamo alla tutela del lavoro nazionale diventa l’argomentazione più facile per giustificare la chiusura delle frontiere e la costruzione di nuovi muri.
Ma questo nuovo modello, che in realtà assomiglia molto alle politiche degli anni Trenta del secolo scorso, ha buone possibilità di successo? I dubbi in tal senso sono tanti a cominciare dalla estrema difficoltà per gran parte dei Paesi del mondo a fare da soli, a produrre con la propria manodopera e con le proprie risorse ciò di cui hanno bisogno senza dover fare i conti con inevitabili tendenze inflazionistiche.
Inoltre è davvero poco comprensibile immaginare che ogni Paese possa crescere solo con le proprie idee “nazionali” e privato dell’apporto delle migliori intelligenze cosmopolite; i grandi Paesi sono diventati tali perché hanno aperto i loro confini, non perché hanno manifestato l’ambizione a diventare piccoli villaggi. Certo, nel breve periodo il protezionismo può trascinare una nuova ventata finanziaria, come dimostra il record dell’indice Dow Jones, ma si tratta dell’ennesimo surf speculativo mosso da una ben poco credibile riscoperta delle appartenenze identitarie; un turbine che non favorirà una migliore distribuzione della ricchezza. Da questo punto di vista non ci sono grandi differenze tra globalizzazione e protezionismo.
* Alessandro Volpi, Università di Pisa