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Sentenze da emettere in nome del governo

Eliminando l’obbligatorietà dell’azione penale la maggioranza tenta di controllare i giudici. Così si colpisce il cuore della democrazia. La rubrica di Tomaso Montanari
Il 10 giugno 1925, esattamente un secolo fa, il guardasigilli fascista Alfredo Rocco espose alla Camera il progetto del regime sulla giustizia affermando che “la magistratura non deve far politica di nessun genere; non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista”.
Sono parole identiche a quelle pronunciate, oggi, dalla presidente del Consiglio e da tutta la maggioranza di governo che ha fatto quadrato intorno al sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove, condannato a otto mesi per violazione di segreto d’ufficio. Sarebbe una sentenza politica, antigovernativa e, ripete il governo con le parole di Alfredo Rocco, “esigiamo fermamente che la magistratura non faccia politica antigovernativa”. La riforma più pericolosa depositata in Senato da questa maggioranza è la numero 504. Che prevede, tra l’altro che all’articolo 112 della Costituzione, dopo le parole “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”, siano aggiunte le seguenti: “nei casi e nei modi previsti dalla legge”.
Questo significa che la legge, cioè la maggioranza parlamentare, ovvero il governo (in questa terribile schiacciatura che non lascia nessuno spazio al parlamentarismo) decide quando l’azione penale sarà obbligatoria, quando no e con quali priorità. Sarà il governo a stabilire quali reati perseguire e con quale efficacia. Il 27 novembre 1947, in assemblea costituente, il deputato della Democrazia cristiana Giuseppe Bettiol, che era anche ordinario di Procedura penale a Padova, disse: “Di carattere veramente costituzionale è l’affermazione esplicita del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, perché è un principio che si adegua a un ordine democratico nell’ambito di uno Stato di diritto in contrasto a due princìpi: quello di discrezionalità, da un lato, per cui il pubblico ministero è arbitro di potere esercitare o non l’azione penale, e il principio di obbligatorietà o di legalità, per cui il pubblico ministero, quando ricorrano i presupposti di fatto e di diritto, deve esercitare l’azione penale stessa. Abbiamo assistito, nella regolamentazione di ordinamenti politici antidemocratici stranieri, all’affermazione del principio di discrezionalità. Anche da noi, nel 1930, con il Codice di procedura penale, quel principio aveva fatto capolino con il permettere al pubblico ministero di archiviare gli atti del processo, quando il documento che conteneva la notizia fosse manifestamente infondato. Oggi questo potere del pubblico ministero di archiviare gli atti del processo senza ottenere il benestare del giudice istruttore è eliminato, per cui siamo tutti orientati verso l’affermazione chiara e precisa che l’esercizio dell’azione penale ha carattere obbligatorio”.
In altre parole, l’obbligatorietà dell’azione penale è una delle cose che rendono la Costituzione, e dunque la Repubblica, il contrario del fascismo, per usare una bella espressione del presidente Sergio Mattarella. E l’argomento con cui il governo vuole controllare la magistratura è in sé estremamente preoccupante: abbiamo vinto le elezioni e dunque rappresentiamo, anzi siamo, il popolo sovrano. E dunque le sentenze emesse in nome del popolo le dobbiamo orientare noi. Qui si tocca il cuore della democrazia: in cui la sovranità non appartiene alla maggioranza ma al popolo tutto intero che la esercita “nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Ecco il vero obiettivo: fare saltare queste forme e questi limiti. Se questo passa, usciamo dalla democrazia e dallo Stato di diritto.
Tomaso Montanari è storico dell’arte e saggista. Dal 2021 è rettore presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra. Il suo ultimo libro è “Libera università” (Einaudi, 2025)
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